Trent’anni di club in giro per il mondo tra piatti e vinili: lui è Claudio Coccoluto, tra i dj quello che più di altri crede da sempre che la discoteca altro non sia se non “un luogo in cui ascoltare musica”. Null’altro.
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente mentre era nel suo studio di registrazione e tra una domanda e l’altra ci ha fatto conoscere l’idea che lui ha del mondo della notte, dei personaggi che lo animano e di tutto il meccanismo che gira intorno ai locali.
Chi è il dj ideale per lei e quale pensa possa essere quello di chi frequenta, oggi, le discoteche?
«La percezione del dj ideale è soggettiva – risponde – così come è altrettanto soggettiva l’idea che della musica può avere chi l’ascolta. C’è, in tutti noi, una sensibilità che va oltre le possibilità cognitive: si risponde in maniera istintiva ad una melodia che a prescindere dal fatto che si consideri, per così dire, attraente, ci fa muovere le gambe.
Ci sono dei fenomeni che superano la volontà e condizionano molto le scelte. E siccome noi dj siamo custodi della musica, ma non siamo musicisti, piuttosto uno strumento al servizio del divertimento altrui, diventiamo “ideali” quando riusciamo a toccare quella sensibilità di cui le parlavo prima.
È questo a fare la differenza».
Come è cambiata la musica dance dagli anni ’70 ad oggi?
«Intanto la musica cambia ogni minuto: mentre parliamo, continua a cambiare perché ci sono all’opera decine di musicisti, artisti e produttori che sono al lavoro per creare dei prodotti che non siano “ovvi” o figli, per intenderci, di quell’industria musicale e commerciale che crea successi a tavolino. La musica dance cambia perché la domanda è continua. Settimanale. Il pubblico che mi segue conosce la logica dei cambiamenti: per questo mi ritrovo ad aggiornare spessissimo il mio parco di dischi».
Musica che radio e televisione non fanno mai passare, però. Come mai?
«La dance da club è una branca precisa musicale che non trova riscontri nelle radio o in televisione perché i club stessi funzionano come se fossero una radio libera degli anni ’70. È originale. Di recente si sente molta “disco” in giro di matrice anni ’70, sintomo evidente non solo di una mancanza di idee, ma anche della voglia di ripercorrere i propri passi o riproporre alcuni suoni, magari rivisitandoli con l’aiuto della tecnologia moderna».
Allora, quale ritiene sia il genere musicale perfetto e quale il periodo migliore della discoteca?
«Per quello che è il mio vissuto, mi sento di dire che il periodo d’oro è quello degli anni compresi fra il ’92 e il ’98. Anni straordinari, me lo lasci dire, durante i quali nei party si respirava un’atmosfera magica.
Ci si divertiva davvero, anche se il divertimento era considerato da alcuni ”eccessivo”. Ma non lo era, soprattutto se paragonato all’eccesso che caratterizza, oggi, alcune serate. Il fenomeno dell’house è esploso proprio in quegli anni, diventando un linguaggio globale. È allora che si è toccata la vetta dell’entusiasmo: era tantissimo il coinvolgimento non solo di chi, come me, stava dietro la consolle, ma anche di chi ballava in pista. Tutto questo prima della musica “strillata” nata dal fenomeno Ibiza. Prima, in pratica, che si industrializzasse».
Vuol forse dire che oggi tutto è solo un business?
«Sì. Negli ultimi anni è così. Più o meno nel 2000 è nata un’industria del divertimento che ruota intorno alla figura dei dj».
E prima di allora?
«Prima di allora eravamo considerati delle rockstar in miniatura perché godevamo di un grande riscontro da parte del pubblico. Tutto questo, però, non era consacrato o legittimato dal marketing che è arrivato dopo e ha sfruttato il trend per farlo suo. È proprio da quel momento che i dj sono diventati dei rimpiazzi, delle caricature delle rockstar che mancavano».
Con quale risultato?
«Sul palco di un Festival, per intenderci, i giovani trovano un “cretino” dietro un tavolo che agita le mani, fa gestacci e, tutto intorno, fuochi e coriandoli, luci e proiezioni perché il contenuto scenico è poverissimo».
Come in un concerto rock, dunque.
«Non proprio: si tratta solo di una sorta di parodia di quello che è stato, un tempo, un concerto rock. Nella cultura del club l’artista è la gente. È nel party e con la gente condivide l’energia. Con l’arrivo dei “soldi”, lo schema è stato riproposto tale e quale”.
Lei è una dei pochi ad arrivare in consolle armato di valigetta e vinili: ma si trovano ancora le… puntine?
«Questo pericolo l’ho scongiurato portandomele io. Ma confesso di non aver trovato il giradischi: un paio di volte ho temuto di non poter suonare, ma alla fine abbiamo rimediato tirando fuori dagli scantinati dei pezzi arrugginiti. È questa un’altra conseguenza di di quella accelerazione tecnologica che ha spostato l’attenzione sul digitale dimenticando quello che c’era prima, per poi riscoprirlo tirando nuovamente fuori i vinili, i giradischi, le puntine».
È l’effetto rebound?
«Esatto. All’inizio l’impatto tecnologico è devastante. Poi ci si rende conto che qualcosa del “vecchio” era interessante e lo devi recuperare. Non credo, sinceramente, che il vinile possa durare ancora a lungo: su una nicchia di amatori e feticisti continua, comunque, ad esercitare il suo fascino».
Ma alla fine è più facile selezionare musica su vinile o utilizzando i moderni strumenti tecnologici?
«Le faccio un esempio: è come cucinare col Bimby: facilita il compito di chi cucina. La tecnologia fa la stessa cosa: facilita l’accesso alle modalità, penalizzando la passione e la cultura musicale senza le quali il concetto di dj viene a mancare».
Si riferisce al fenomeno dei dj nati “per caso”?
«Ci ridiamo spesso su, ma la consolle sembra essere diventata il refugium peccatorum di quanti, per esempio, dopo un’esperienza fallimentare in un talent si trasformano in dj. Sono rimasto stupito da Fisichella che da pilota di F1 si è trasformato in dee jay. A questo punto, ho alzato le mani: che entri chi vuole, tanto qua… c’è posto per tutti. E poi, basta un selfie per mantenere la popolarità. Di spalle alla consolle, ovviamente».