«Tra Gio Ponti e monsignor Motolese si stabilì un rapporto di amicizia rinascimentale, un rapporto tra artista e committente. Motolese amava l’architettura, una volta disse che gli sarebbe piaciuto fare l’architetto».
Il professor Vittorio De Marco è il custode di uno scrigno di “segreti” che possono raccontare la genesi di quel gioiello dell’arte e dell’architettura del Novecento, la Concattedrale Gran Madre di Dio che l’arcivescovo Motolese commissionò a Gio Ponti. È lui, il professor De Marco, a custodire il fitto epistolario che consegna alla storia questa «amicizia rinascimentale» che ha regalato a Taranto un’opera riconosciuta a livello internazionale.
Professore, Gio Ponti era milanese. Quale fu il suo impatto con una terra così diversa e lontana dalla sua Milano?
Ponti venne individuato come progettista della Concattedrale nel 1964. Allora venne a Taranto, visitò Martina, Ostuni, Locorotondo, poi il Salento. Rimase abbagliato dalla bellezza e dalla grandiosità della nostre cattedrali romaniche. Di San Nicola disse che faceva tremare. Di fronte a tanta magnificenza disse: “Ma davvero io devo progettare una cattedrale?”.
Cosa lo colpì del paesaggio pugliese?
Rimase affascinato dalla luce: l’azzurro del cielo, il bianco delle case, il verde delle campagne. Diceva: “La mia cattedrale sarà bianca, aggredita dal verde”. La immaginava circondata da macchia mediterranea, con un giardino spontaneo intorno. Fu fatto anche un esperimento con la vite canadese, ma quel tentativo fu abbandonato per questioni tecniche.

Gio Ponti

Guglielmo Motolese
Immaginava la Concattedrale immersa in un contesto completamente diverso da quello attuale…
Immaginava che intorno alla Concattedrale sarebbero sorti dei mini quartieri. Nella parte posteriore avrebbero dovuto sorgere gli edifici della Curia e l’Episcopio. Ai lati edilizia popolare di controllatissima architettura, nulla di simile alle case popolari così come le conosciamo qui. E ancora, pensava ad un museo, ad un teatro, ad una scuola, ad un asilo e ad un edificio per i gesuiti. Immaginava, insomma, un’area dove spiritualità, cultura e funzioni sociali si sarebbero incontrati. Volle offrire alla Città questo stralcio di piano regolatore, da eseguire attraverso un concorso nazionale. Se si fosse realizzato il suo progetto oggi avremmo avuto un modello urbanistico per studiare il quale sarebbero arrivati da tutto il mondo. Purtroppo non è stato realizzato nulla.
E anche la Concattedrale negli anni è stata trascurata e mai davvero apprezzata dai tarantini.
Oggi si è fatto un intervento importante per rafforzare la Vela. Spero che questo cinquantesimo anniversario possa far conoscere la Concattedrale ai tarantini, innanzitutto.
Un’opera che Ponti considerava l’apice della sua produzione.
L’architetto era pienamente identificato in questo suo lavoro. La fase di progettazione fu vissuta da Ponti con grande travaglio interiore. Tra il ’64 e il ’65 dovette subire un intervento agli occhi. Scrisse: “Mi bendano, ma io continuerò a vedere la Concattedrale”. In un’altra occasione, partecipando ad un convegno in Svizzera, disse che avrebbe parlato della Concattedrale, perché così avrebbe parlato della sua vita. C’era una totale compenetrazione tra l’uomo e il progetto. Ci teneva a rendere Motolese partecipe della evoluzione della sua creatura. In una delle sue lettere all’arcivescovo scrisse che era stato fortunato a conoscere una persona così. Nella cripta aveva progettato due tombe: una per lui e una per Motolese, una di fronte all’altra. Ma non furono mai realizzate.
Gio Ponti si fece guidare dalla fede nella sua progettazione?
Aveva una fede straordinaria, profonda ed era profondamente preoccupato di costruire una chiesa nella quale il fedele potesse davvero sentirsi nella casa di Dio. Nel ’64 c’era il Concilio Vaticano II e lui era molto attento a trasfondere nella progettazione lo spirito del Concilio. Il progetto ne risente: oltre alla cattedra del vescovo dietro l’altare, ne posiziona una di lato, perché potesse essere più vicina al popolo. Se ci facciamo caso, è quella più utilizzata.
La vela è stata l’elemento più rivoluzionario della Concattedrale. Come arrivò Ponti a concepire quella soluzione?
La Concattedrale è stata un’opera in divenire. Gio Ponti variava in continuazione il progetto, almeno in alcuni particolari, per apportare miglioramenti. Anche la Vela ha avuto una gestazione complessa. In una prima stesura del progetto, la Vela non era prevista. In seguito immaginò una struttura che chiamava “torre” con una doppia facciata e vetrate studiata per far sì che la luce dovesse penetrare nel presbiterio. Ma era una soluzione troppo costosa e Gio Ponti era molto attento all’uso dei soldi. Diceva: “Dobbiamo spendere bene i denari di Dio” e anche le sue parcelle erano ridotte all’essenziale. Quindi, eliminata la torre a doppia facciata e le vetrate, la Concattedrale esce fuori dal bozzolo e assume l’attuale forma slanciata: ecco la vela. Ponti allora le costruisce davanti il mare, le vasche: la prima per riflettere la sola facciata, le altre per riflettere la cattedrale nella sua grandezza. La vela con le sue traforazioni è l’esaltazione dello strettissimo rapporto con il cielo del Mediterraneo che tanto aveva affascinato Ponti. Nel ’76 una rivista francese, una delle più importanti riviste d’arte al mondo, inserisce la Concattedrale tra le venticinque opere più importanti realizzate nel Novecento. Insieme alla Concattedrale ci sono, fra le alte opere, il Guggenheim, lo stadio di Tokio di Kenzo Tange, la cattedrale di Brasilia, la Chapelle di Le Corbusier, architetto per il quale Ponti nutriva una ammirazione smisurata.
Ua storia straordinaria che speriamo sia utile a far capire ai tarantini il valore di questo monumento.
Una chiesa contemporanea può piacere o no, ma per apprezzare la Concattedrale è appunto importante conoscere tutto l’itinerario che ha portato alla sua nascita. Ponti l’ha amata come ha amato la Città e non a caso lui voleva una Concattedrale che non fosse “proibita” ma che fosse stretta alla città. Un suo desiderio era proprio quello di ottenere la cittadinanza onoraria (ne è previsto il conferimento post mortem nell’ambito delle celebrazioni per il 50esimo anniversario della Concattedrale, ndr).
E monsignor Motolese come arrivò a pensare una nuova cattedrale e perché in quella zona?
Motolese aveva la cultura del progetto. Già nel ’62, in suo discorso, accenna alla necessità di una nuova cattedrale per rispondere alle esigenze di una città in grande espansione. Inizialmente si pensava di ubicarla tra viale Trentino e via Alto Adige, poi l’asse si sposta su viale Magna Grecia perché c’era stata la donazione dei terreni da parte della contessa D’Aquino. In una foto d’epoca si vede il cantiere della Concattedrale e davanti la masseria D’Aquino.
Come accolse il progetto avveniristico di Ponti?
L’arcivescovo si innamorò del progetto. Andò a visitare la Cappella San Carlo a Milano, progettata da Ponti, e ne rimase colpito. “Ma la nostra – disse – sarà ancora più bella”.
Come si arrivò alla scelta di Ponti?
Motolese aveva affidato la ricerca del progettista all’Istituto Internazionale d’Arte Liturgica. La scelta inziale dell’Istituto ricadde su Pierluigi Nervi, che però declinò. L’incarico fu allora conferito a Ponti che peraltro aveva già collaborato proprio con Nervi. Ottenuto l’incarico si stabilisce il contatto tra Ponti e Motolese e tra i due, come detto, nascerà una amicizia profonda. Pian piano il ruolo dell’Istituto d’Arte Liturgica viene meno, esce dalla storia della Concattedrale. L’Istituto aveva anche istituito una commissione per la valutazione del progetto e la sua conformità ai dettati liturgici. Una ingerenza che Ponti non gradiva. Ad esempio la commissione voleva eliminare il balcone esterno della Concattedrale, ma Motolese fu fermo nel difendere l’idea progettuale di Ponti e da allora, nelle sue lettere, l’architetto si rivolge all’arcivescovo chiamandolo “Mio protettore”. Ponti e Motolese erano due anime innamorate della creatura che stava nascendo e quando il 6 dicembre 1970 la Concattedrale fu inaugurata, a Gio Ponti furono tributati dieci minuti di applausi.
Enzo Ferrari
Direttore responsabile