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Occhionero voleva il porto e Di Pietro disse di sì

Giulio Occhionero aveva messo gli occhi sul porto di Taranto. Era pronto con un fantomatico investimento da 800 milioni di euro che all’epoca aveva abbagliato gran parte della Taranto istituzionale e imprenditoriale.

Andiamo con ordine. Nelle carte dell’inchiesta sulla presunta attività di spionaggio e dossieraggio esercitata da Occhionero con la sorella Francesca sono emersi elementi che hanno a che fare proprio con il porto di Taranto. Tra i file “custoditi” sui server utilizzati dai due fratelli finiti agli arresti, era archiviata una cartella denominata “Tabu”, acronimo che starebbe per Taranto Business. All’interno, account e password collegati all’Autorità Portuale di Taranto. Il business sarebbe stato proprio quello che Occhionero, forte di appoggi massonici, voleva mettere a segno qui tra i Due Mari.

La vicenda, inziata intorno al 2005, prese sostanza a cavallo tra il 2007 e il 2008. A seguirla era stato Michele Conte, dapprima come segretario generale e poi come presidente dell’Autorità Portuale. «Giulio Occhionero – racconta Michele Conte a TarantoBuonasera – si presentò come titolare della americana Westlands Securities (società registrata a Malta nel 1998, ndr), una società di consulenza internazionale che operava anche in borsa. Occhionero era accompagnato da lettere di accredito di banche inglesi o americane». Il progetto era di quelli faraonici: «Proponeva un investimento di 800 milioni di euro per realizzare ciò che in effetti era previsto nel piano regolatore portuale: l’allargamento del molo ovest, quello che oggi teoricamente dovrebbe ospitare la cassa di colmata per i dragaggi, e l’utilizzo dell’ex yard Belleli per realizzare un terminal container e un impianto di trasformazione di prodotti agroalimentari. In pratica, una sorta di distripark. Occhionero parlava di occupazione per cinquemila addetti».

Cifre che fecero rapidamente girare la testa a imprenditori e rappresentanti delle istituzioni, che accolsero con grande entusiasmo il progetto dell’ingegnere nucleare dedito a curiosare nei computer e negli smartphone di uomini di governo, banchieri, imprenditori, militari e prelati di alto rango. Un progetto che aveva incantato persino l’allora ministro per le infrastrutture Antonio Di Pietro. «In verità – rivela Conte – quando chiesi con quali fondi sarebbe stato finanziato questo massiccio investimento, Occhionero mi parlò di fondi pensionistici statunitensi. Ebbi allora l’impressione che potesse trattarsi di qualcosa di piuttosto vago e allora chiamai il consolato americano a Napoli per chiedere informazioni. Mi risposero che non sapevano assolutamente nulla».

Una informazione sufficiente per indurre l’allora presidente dell’Autorità Portuale a procedere con estrema cautela. «Occhionero mi si presentò con la bozza di un atto di concessione che stravolgeva i termini della legislazione italiana, perché capovolgeva le responsabilità giuridiche attribuendole in capo allo Stato. Ovviamente rispedii tutto al mittente». Ma il fantomatico investimento fa gola a molti e Di Pietro decide di convocare una maxi riunione al ministero, a Roma: «C’era anche il commissario anticorruzione, il prefetto Serra. Tra me e Di Pietro ci furono contrasti e addirittura mi si accusava di ostacolare quel progetto perché avrei avuto in animo di favorire altri interessi. A quel punto dissi a Di Pietro di assumersi lui le responsabilità delle decisioni. Di Pietro si convinse a procedere con il meccanismo del project financing. Bisognava quindi presentarsi al Cipe con un progetto preliminare. Servivano diecimila euro: da quel momento della Westandls Securities e dell’investimento da 800 milioni perdemmo le tracce». Ci fu però un tentativo di rivalsa di Occhionero proprio su Michele Conte: «Fu promossa un’azione giudiziaria nei miei confronti. L’anno scorso quella denuncia è stata archiviata».

Enzo Ferrari
Direttore Responsabile