MARINA DI GINOSA – Il risentimento glielo si legge ancora negli occhi. Guizzano di rabbia quando ricorda la sua disavventura giudiziaria: quindici anni in cella con l’accusa di aver ammazzato due ragazzi. Trattenuto in carcere per anni anche dopo essere stato scagionato da diversi collaboratori di giustizia.
Poi, al termine di un lungo e tortuoso percorso giudiziario, il riconoscimento della sua innocenza. Domenico Morrone non aveva commesso il fatto, non era stato lui ad uccidere due adolescenti, uno di quindici e l’altro di diciassette anni. Rione Tamburi, 30 gennaio 1991: è lì che si consuma il duplice delitto, davanti alla scuola Deledda. Erano anni di fuoco e piombo, quelli. Taranto insanguinata dalla guerra tra i clan: i fratelli Modeo, da una parte; l’altro fratello, il Messicano, dall’altra. Altri gruppi, a latere, componevano il mosaico delle alleanze criminali. Morrone viene arrestato in men che non si dica: è la risposta forte di uno Stato in grande affanno nel contenere quella violenta faida che seppellirà oltre un centinaio di vite; alcune innocenti, del tutto estranee a quella brutale scia assassina. «Quel pomeriggio – racconta – ero a tavola a pranzare con mia madre. Bussarono alla porta e vennero a prendermi per portarmi in questura. Da lì al carcere. Quindici anni in cella».
Un calvario, un tormento esistenziale, una fetta della propria vita strappata via per non aver commesso nulla: «Avevo 27 anni». Oggi Domenico Morrone la sua tragica storia l’ha raccontata in un libro (Vita dentro, 15-4- 22, Antonio Mandese Editore) scritto a quattro mani con Luigi Monfredi, il giornalista oggi alla Rai che in quegli anni maledetti seguì il caso come cronista di Telenorba. «Voglio che venga riconosciuta la responsabilità civile dei magistrati», tuona Morrone nella sua casa in campagna, a Marina di Ginosa, dove si è ritirato a vivere dopo aver riacquistato la libertà, nel 2006. Stride quel sentimento gonfio di rancore nella quiete di quel pezzo di terra abbracciato dagli ulivi ai quali Morrone ora dedica le sue giornate. «Io – racconta – a Ginosa Marina ci sono nato. Mio padre era di Taranto, ma era perseguitato dai fascisti. Era comunista, antifascista, e venne a rifugiarsi qui, insieme ad altre famiglie. Tra contadini si viveva scambiandosi i prodotti della propria terra. Poi mio padre mise su un piccolo villaggio vicino al mare. Tutto bello fino agli anni ’70, quando l’ambiente cominciò a guastarsi. La camorra cominciava a infiltrarsi da queste parti, dall’altra ci fu espropriato tutto e quel villaggio fu raso al suolo. Fummo letteralmente deportati a Ginosa paese. Fu un atto di barbarie. Ricordo che il nostro cane, Leone, fu schiacciato da una ruspa. Da Ginosa, in seguito, ci trasferimmo a Taranto».
Nella città dei Due Mari una vita da pescatore, dopo una breve esperienza come paracadutista nella Folgore: «Mi arruolai nel 1984, un anno dopo mi congedai. Avevo fatto domanda anche nei Carabinieri, mi chiamarono ma rifiutai». Non immaginava, Morrone, che da lì a qualche anno per lui si sarebbero aperte drammaticamente le porte del carcere di via Speziale. «Sezione 1A, cella 3, in isolamento. Furono momenti terribili. I detenuti del piano superiore mi invitavano provocatoriamente a salire da loro. Per assurdo mi consideravano affiliato al clan De Vitis, loro nemico. Eravamo ancora negli anni della guerra di mala. Se appena appena salutavi qualcuno del clan avverso rischiavi di essere ammazzato». Le lunghe giornate trascorse in cella, non proprio un soggiorno in hotel: «Le celle erano sporche, i materassi lerci. Da mangiare ci davano mortadella di cavallo. A colazione qualcosa che aveva il colore del latte. Un’ora d’aria la mattina e una la sera. È dura la vita del carcere, in quindici anni ho contato diciannove suicidi». Poi accade che via Speziale cambia nome e non per un capriccio della toponomastica: diventa via Carmelo Magli, l’agente di polizia penitenziaria assassinato dai clan all’uscita del suo turno di lavoro. «Era buono come il pane», ricorda Morrone. Qualche giorno prima di essere ucciso era stato proprio nella mia sezione». Ma quell’episodio segna un’altra esperienza nella sua vita carceraria: «Fui avvicinato dal cappellano, voleva sapere da me se io sapessi chi fossero gli assassini di Magli. Da allora non sono più andato in chiesa».
E in carcere non deve essere semplice trovare un equilibrio nel rapporto con gli altri detenuti: «È come il porto: trovi il pesce buono e quello cattivo. Tocca a te decidere con chi stare». Morrone comunque è un detenuto modello. Prima il trasferimento in cucina, dove scopre di essere un cuoco sopraffino, poi al casellario per fare lavoro impiegatizio. Tra le persone speciali che conosce, c’è suor Celestina: «Una sorella carica di umanità. Una volta rimproverò bruscamente una autorità che mi aveva dato già per “sepolto”». «I momenti più malinconici? I giorni di festa. A Capodanno sentivamo i botti che arrivavano dalla città e dalla finestra, attraverso le sbarre, vedevamo i fuochi in cielo. Ecco, pensavo, è passato un altro anno. Da quella stessa finestra seguivo con lo sguardo mia madre quando, dopo i momenti di colloquio, si allontanava verso la fermata del pullman. Seppi solo molto dopo il mio arresto che aveva subito anche lei ripercussioni per quella vicenda. È vissuta giusto il tempo di vedermi tornare a casa da uomo libero». Da uomo libero, appunto. «Oggi vivo alla giornata, sono passati gli anni in cui si facevano progetti, oggi i progetti non si fanno più. Vivo con i miei 137 alberi di ulivo e ho ancora l’attrezzatura da sub per andare a pesca. Adesso ho 59 anni, ma la mia vita è stata distrutta quando di anni ne avevo 27. Non si cercava la verità, ma un capro espiatorio. L’errore è sempre dietro la porta, ma nei miei confronti si scatenò una crociata personale. Ho persino rischiato di essere coinvolto in una guerra tra clan a cui ero completamente estraneo. Il 30 gennaio ho compiuto l’anniversario di quella assurda ingiustizia. Sì, sono stato risarcito, ma gran parte dei soldi li ho spesi per pagarmi gli avvocati. Non potrò riacquistare serenità fino a quando ci sarà una sola persona che subirà una ingiustizia come quella che ho subìto io». Il congedo dal cronista è lancinante: «Hai visto un martire vivente».
Enzo Ferrari
Direttore responsabile
«La giustizia prima o poi arriva»
«Quando lessi il lancio Ansa sul pescatore tornato in libertà cominciai a saltare per la gioia. Tutti si chiedevano perché. Allora ero nella redazione del Tg1. Arrivò il capo della cronaca, gli raccontai la storia di Domenico Morrone e mi fece fare il pezzo per il tg delle 20. Lo montammo con le immagini dell’epoca, perché il caso volle che l’unica videocassetta che mi ero portato dietro fosse proprio quella con i servizi su Morrone che avevo realizzato per Telenorba».
Luigi Monfredi, oggi capo redattore a Rainews 24, la storia di Domenico Morrone l’ha seguita dal principio e oggi ha dato alle stampe il libro che ricostruisce quella sconcertante vicenda. La memoria ritorna a quegli anni bui in cui Taranto era devastata da una guerra di mala senza precedenti: «Ero l’unico giornalista innocentista.Sulla stampa Morrone era presentato, senza possibilità di appello, come l’assassino di due ragazzi. All’epoca facevo il cronista di nera e giudiziaria e mi resi conto che c’erano cose che non tornavano in quella vicenda: non c’era l’arma del delitto, c’erano testimoni che avevano ritrattato, la prova dello stubb ripetuta dopo mesi, erano spariti gli indumenti dall’Ufficio Corpi di Reato. Nel processo un testimone arrivò persino ad accusare il pubblico ministero di averlo subornato. Insomma, troppe cose non quadravano e io non ho fatto altro che coltivare il dubbio». Con Morrone, solo un fugace contatto diretto: «Sì, lo conobbi personalmente il giorno della sentenza di condanna a 21 anni di carcere. Mi avvicinai alla gabbia dove era rinchiuso, gli diedi la mano e gli dissi “In bocca al lupo».
Lui mi rispose: “Monfredi, non sono stato io”». Luigi Monfredi e Domenico Morrone si sono rivisti quindici anni dopo, a conclusione del calvario vissuto da una persona che la giustizia ha riconosciuto con così grave ritardo di essere innocente. «Tante cose in quel processo mi avevano lasciato perplesso. Anni dopo, quando Morrone era tornato libero, riuscii a strappare una dichiarazione di 34” al pm che ne aveva chiesto la condanna. Mi disse che era dispiaciuto, ma che aveva agito in base agli atti che aveva a disposizione». Sfiducia nella giustizia? «No, affatto. La giustizia, in fondo, ha dimostrato di esistere. Certo, cammina sulle gambe degli uomini e prima o poi arriva chi rimette le cose a posto. Tardi, ma arriva».
E.F.