In questo spazio vi proponiamo gli appunti di viaggio di una tarantina all’estero, Anna Raisa Favale, che continua il suo racconto dalle Filippine.
C’è tutto un popolo di persone, nel mondo, che vive 6 mesi da una parte, e 6 mesi da un’altra, seguendo le stagioni, il sole, il lavoro, e a volte, come in questo caso, il vento. Sono dei Kite Surfer o degli istruttori di Kite Surf, e da novembre a marzo, circa, tutti gli anni, tornano a Boracay, nelle Filippine, a svernare, per poi volare in patria e prepararsi alla stagione estiva dall’altra parte del mondo. Tra di loro – norvegesi, spagnoli, inglesi, tedeschi– ci sono anche gli italiani.
E’ una vita a cavallo – ormai vengono qui da diversi anni e si è creata una comunità, o una tribù, sarebbe più appropriato dire – e ogni anno si ritrovano, si raccontano, e condividono un pezzo di strada insieme. Appartenenti a scuole principalmente al Nord, vicine al Lago di Garda, hanno trovato nelle Filippine un micro mondo perfetto per lo stile di vita che hanno scelto. Hanno i loro bar, le loro spiagge, il loro territorio. Li trovi al mare notte e giorno, a respirare il vento e il sale, a passare il tempo facendo cose semplici, a ridere spesso, a divertirsi con poco. Amanti dell’adrenalina e della natura, hanno un rapporto con l’acqua quasi mistico. Li ascolti parlarti della passione per il kite quasi come di una droga, della pace e insieme dell’energia che questo sport comunica alle loro menti e ai loro corpi. L’energia del mare e il vento insieme, l’unione con l’acqua. Conoscono tutti, sono arrivati qui quando l’isola era diversa, molto meno turistica e più selvaggia, come dicono loro, meno cemento e più autenticità, e hanno storie assurde da raccontare, a volte di incidenti.
Come quella di un amico vivo per miracolo, trasportato in elicottero a Manila, qualche anno fa, e poi curato lì, dopo essersi scontrato contro la parete di una roccia. E’ uno sport che comporta dei rischi, ma non ne è la caratteristica essenziale. E non è neanche la libertà fine a sé stessa, per come la vedo io e quello che mi sembra di aver colto dalle loro storie, che alimenta nel profondo il desiderio per il quale lo praticano. La caratteristica essenziale, per molti di loro, è il vento, in qualche modo: vale a dire, quella forza quasi soprannaturale che li ha sconvolti e conquistati, una volta nella vita, e dalla quale continuano a lasciarsi guidare: nelle scelte di vita, e in dove e come decidono di usarla. Vivono nel presente e nell’oggi, e Boracay – “seconda stella a destra, e poi dritto fino al mattino” – che dall’Europa arrivi veramente dritto qui – per tante cose sembra davvero l’isola dei bambini sperduti di Peter Pan. Tanta gente qui è venuta a perdersi, o a sperdersi, meglio, solo per poi ritrovarsi. Tanti Europei hanno ormai costruito vite in anni, e alcuni di loro hanno anche ormai famiglie e figli. Non i kite surfer però. Loro migrano, come le balene, a seconda della stagione, e poi tornano a casa. E’ la storia di Francesco, per esempio, che nella vita ha fatto tante cose, e alla fine ha trovato una grande passione, il kite, e l’ha trasformato in un lavoro. O di tanti altri viaggiatori nel DNA, che dopo aver scoperto quest’isola nel Pacifico ogni anno ci ritornano. Di gente che viene qui per fare Kite ce n’è tanta.
Alcune spiagge “danno soddisfazione”, come dicono loro. C’è un bel vento e un mare adatto. Ma non è solo per questo. Per fare kite probabilmente il Brasile o il Sud Africa sono posti che offrono anche più. E’ in qualche modo il gruppo, che si è creato intorno alla passione per il mare e questo sport, che invita a ritornarci ancora e ancora. E’ il calore di sentirsi in qualche modo a casa, anche quando non si è a casa. Che si può viaggiare in lungo e in largo, ma alla fine abbiamo tutti bisogno di ritrovare una comunità, un gruppo di persone che ricordano il nostro nome, conoscono la nostra storia, sanno cosa ci piace per cena e cosa regalarci per il compleanno. Viaggiare, molto più che stare fermi in un unico posto, credo ti insegni a capire che come esseri umani siamo sempre in cerca di altri esseri umani da chiamare casa. Per un viaggiatore accanito, o per un “uomo migrante”, in qualche modo, come le balene, o come le farfalle, quel concetto di casa è qualcosa che non esiste solo in un unico luogo fisico, ma è comunque qualcosa che trascende il movimento stesso.
E’ lo stare, seppur continuando a muoversi. E’ il restare. Ci sono cose che restano. Luoghi che restano, persone che restano. E per quanto possiamo spostarci il nostro cuore reagisce a quello che resta molto di più che a quello che si muove. Questa tribù di gente, è una tribù che se non resta, comunque torna. Sempre qui, ogni anno. Mancano meno di due mesi, poi ritorneranno in Italia. A prendersi altro vento, a cavalcare altre onde. E poi, chissà. Se la vita non li avrà fino ad allora sorpresi con mareggiate e onde più appassionanti da cavalcare, forse di nuovo qui, per un’altra stagione, il prossimo anno. A ritrovarsi allo stesso bar di sempre, bere le stesse birre, in attesa che il mare porti qualcosa di nuovo, domani, da inseguire. Perché sono persone che sanno essere sorpresi dalla vita e che sanno sorprendere, che del seguire il vento e la sua voce, ne hanno fatto il loro credo.