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«I 680 milioni sono un falso problema»

Le prospettive
L'ex Ilva

Caro direttore,

leggo continuamente su molti giornali (compreso il tuo) interviste e dichiarazioni di ministri, politici, sindacalisti, giornalisti, amministratori locali, gente comune su Acciaierie d’Italia, con l’obiettivo di individuare la soluzione del problema che ha innumerevoli risvolti di tutti i tipi: economici, sociali, giuridici, politici, finanziari, gestionali, ecc. Io non voglio unirmi a questo insieme di dichiarazioni che mentre denunciano la complessità del problema, pensano di proporre la soluzione corretta. Voglio soltanto fare presente e ricordare quali sono gli estremi della questione che nella sua dura realtà non si possono negare per nessuna motivazione morale, sociale, politica o di convenienza. (In questo senso il mio intervento rischia di essere definito banale e riduttivo, a fronte delle fantasticherie di chi pensa alla decarbonizzazione da realizzare fra qualche mese o anno!)

L’attività siderurgica è un’impresa industriale che opera in mercato aperto internazionale per quanto riguarda l’approvvigionamento delle materie prime, dei combustibili, della vendita dei prodotti, delle politiche commerciali. La dimensione e la configurazione impiantistica (es. ciclo integrale) dello Stabilimento di Taranto furono a suo tempo decise per realizzare le condizioni di economia di scala che da sole ne potevano garantire l’efficienza gestionale (ricavi superiori ai costi almeno per compensare il ritorno degli ammortamenti) dato lo svantaggio rispetto ad altre nazioni per gli approvvigionamenti e la vendita dei prodotti. Non serve ora valutare se fu una scelta corretta o meno! Così come la sua collocazione rispetto alla città. È un dato di fatto da cui non si può comunque prescindere. Come ogni attività industriale, la siderurgia per potersi reggere e dare lavoro ai dipendenti ha bisogno di mantenere un equilibrio gestionale ed economico nel settore merceologico in cui opera a livello mondiale. Questo significa che ogni ostacolo che disturba questo equilibrio mette in discussione la sopravvivenza dell’attività industriale con le inevitabili conseguenze sui dipendenti e le attività collegate. Non si tratta di modificare la quantità di produzione (se non entro certi limiti) ma di comprometterne la continuità di esercizio. Assicurare il lavoro ai dipendenti e alle imprese dell’indotto non è un obiettivo perseguibile isolatamente, ma ne è una conseguenza matematica. Per continuare a lavorare lo Stabilimento ha bisogno oltre che del lavoro, delle materie prime, dei combustibili e degli interventi di manutenzione degli impianti i cui costi devono essere coperti dagli introiti derivanti dalle vendite.

Per poter vendere occorre produrre. Ma se per mancanza di liquidità finanziaria (conseguente a quello che è successo negli ultimi 10 anni) non si possono comprare le materie prime e fare le necessarie manutenzioni non è possibile produrre e vendere in quantità adeguata a coprire le spese di approvvigionamento richieste dalla dimensione impiantistica. A questo punto, bisogna ammettere che non sono le manifestazioni e gli scioperi che risolvono il problema del livello di produzione e del pagamento dei salari e delle fatture all’indotto! Occorre afferrare il toro dalle corna, cioè agire sulle leve opportune per cambiare la situazione, riconoscendone l’importanza e, soprattutto, l’inevitabilità. La politica – nella sua dimensione allargata – si trova a risolvere un problema difficile perché deve seguire criteri e valutazioni diverse dalle metodologie proprie della politica. Se per motivi di economia nazionale e per motivazioni sociali si vuole mantenere in vita l’attività siderurgica occorre creare le condizioni affinché l’azienda, danneggiata da provvedimenti inadeguati e improvvidi da parte della magistratura, possa ritornare alle condizioni di normale esercizio secondo le regole di una normale atti vità aziendale. Ciò comporta la creazione della disponibilità di risorse finanziarie e manageriali la cui entità devono essere valutate al livello delle effettive esigenze (siamo a livello assolutamente superiore ai tanto discussi 650 milioni) con le metodologie proprie di un’azienda che opera in regime di libera concorrenza.

E’ da tener presente che solo per l’acquisto delle materie prime necessarie per rilanciare la produzione a livello di 6 milioni di tonnellate, occorrono più di due miliardi immediati, senza tener conto delle opere di manutenzione, rifacimento impianti, e dei combustibili. Il ritorno di questa liquidità non potrà avvenire prima di sei-dodici mesi. Questo significa che non serve a nulla discutere sulla destinazione dei 650 milioni quando ne occorrono almeno tre o quattro miliardi aggiuntivi. Se non va bene l’alleanza con la Mittal è necessario che la gestione venga affidata ad altra organizzazione che abbia le competenze adeguate a farlo, riconoscendo l’incapacità gestionale dello Stato. Questo deve intervenire per porre rimedio al danno fatto a suo tempo dalla magistratura, rimettendo a disposizione del Paese una struttura produttiva capace di produrre reddito e posti di lavoro in condizioni di libera concorrenza con il rispetto delle adeguate condizioni ambientali. L’attività siderurgica non ha un mercato captive, ma deve guadagnarselo giorno per giorno a livello internazionale suscitando la fiducia dei fornitori e dei compratori. Qualsiasi soluzione diversa può dare l’impressione della soluzione ma rappresenta un danno che si aggiunge a quello già fatto. Certamente si può anche sostenere la tesi della chiusura dello Stabilimento purché, però venga accompagnata da un progetto realistico di riutilizzo dei 15.000 ettari, degli impianti installati e del lavoro di almeno 20.000 famiglie!