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Un osservatorio sanitario per il Mezzogiorno

“WELFARE DI COMUNITÀ”
Un osservatorio sanitario per il Mezzogiorno

Il Mezzogiorno può essere il “luogo laboratoriale “di un nuovo modello di sanità concepita come” welfare di comunità” capace di far tesoro delle criticità strutturali emerse nei propri territori nel corso della pandemia. In questo senso il PNRR può dare al Sud una opportunità unica di cambiamento avviando la costruzione di una nuova normalità capace di valorizzare le migliori risorse della società civile: dagli enti locali, a quelli del terzo settore, alle reti di prossimità, attivando quella sussidiarietà circolare che si ispira agli stessi principi costituzionali. L’istituendo osservatorio sanitario per le Regioni del mezzogiorno dovrà raccogliere la spinta riformatrice del PNRR come strumento utile a colmare le profonde disparità sociosanitarie ancora presenti nel nostro paese in paradossale coincidenza con un disegno di legge che lavora in senso opposto: l’autonomia regionale differenziata!

Occorre mettere in atto tavoli comuni di pensiero e proposta per affrontare l’indiscutibile necessità di reinventare il futuro della sanità pubblica incentrato sulla dignità della persona, inclusivo e resiliente dinanzi alle sfide future necessarie per superare le disuguaglianze sociosanitarie che viviamo; ponendo in confronto le diverse macroaree geografiche del Paese e dimostrare come, il nostro mezzogiorno, sia capace di dotarsi, in tempi prossimi, di un sistema sanitario realmente vicino ai bisogni dei cittadini. L’equità sanitaria è una straordinaria opportunità per raggiungere uno stato generale di benessere, espressione cumulativa dello stato di salute clinica, mentale e sociale, influenzata non solo dalla assistenza sanitaria, ma da fattori socioeconomici e socio ambientali. Le disuguaglianze nel diritto di tutela alla salute appartengono oggi alle fasce di popolazione a reddito più basso. che coincidono prevalentemente con le fasce della cronicità e della fragilità sanitaria., espressive nei loro bisogni assistenziali dei valori intrinseci della sanità pubblica. Proprio il modello dell’invecchiamento, con il suo carico di cronicità e di patologie neurodegenerative, dopo il covid, ha messo in discussione le RSA, chiamando in causa una nuova concezione della domiciliarietà assistenziale, insieme a nuove fonti di investimento e nuove capacità di avvalersi di competenze diverse.

LE SFIDE DEI SISTEMI SANITARI PUBBLICI AD ISPIRAZIONE UNIVERSALISTICA
La pandemia ha messo in drammatica evidenza le sfide che i sistemi sanitari pubblici ad ispirazione universalistica devono saper superare per ottenere risultati sanitari drasticamente migliori. È ormai risaputo che quando si tratta di raggiungere la terza età in condizioni fisiche soddisfacenti, le disuguaglianze territoriali iniziano a farsi sentire. La media italiana per la speranza di vita in buona salute alla nascita è di 58,8 anni nel complesso della popolazione (dati ISTAT) Ad alzare notevolmente la media contribuisce la provincia autonoma di Bolzano e Trento, dove l’indice si stabilizza tra i 65 e i 68 anni. Le regioni come l’Emilia Romagna (62.) il Friuli Venezia Giulia (60.6) e la Lombardia (60.5), presentano tutte un indice superiore alla media italiana. Il primato negativo lo determina il SUD le isole e in particolar modo la Calabria, la Basilicata e la Sardegna. dove la media scende a 55 anni. Le differenze non si limitano a questo indicatore. Il dato più allarmante e che delinea una predeterminata e derelitta emarginazione assistenziale, è quello relativo alla rinuncia alle cure: Secondo le ricerche più recenti essa è presente in una percentuale del 48,85 % nel sud e nelle isole, contro l’11% del nord est, il 18,5% del Nord-ovest e il 21,4% del Centro. Ma quali sono le prestazioni sanitarie di cui si fa a meno più frequentemente? Al primo posto troviamo quelle odontoiatriche (23 % dei casi) seguite da quelle specialistiche (20,7%), quelle inerenti l’ambito della prevenzione (15,6%) e della diagnostica (12,3%).

La rinuncia alle cure trova prevalente giustificazione in carenze strutturali e infrastrutturali. che scoraggiano l’accesso alle cure. È proprio in queste circostanze che il riferimento alla spesa storica dei servizi sanitari e socio-sanitari, presenti nel nostro mezzogiorno, diventa un riferimento cinico e mistificatorio per un reale censimento dei fabbisogni. Tutto questo si traduce in un indice di mobilità sanitaria passiva che riguarda nel 41 % le patologie oncologiche, nel 27% le malattie croniche, nel 25% quelle cardiovascolari e nel 7% gravi patologie neonatali. Il saldo passivo attuale di migrazione sanitaria nelle regioni del mezzogiorno, espressi in milioni di euro, riguarda la Puglia (88499,286), Sicilia (279.162,508), Campania (473 milioni), Calabria (320milioni), Basilicata (40 milioni di euro). In rapporto alla popolazione, la Calabria è la regione del mezzogiorno con il più severo saldo passivo per migrazione sanitaria. Un chiaro divario geografico a sfavore del mezzogiorno è quello relativo alla frequenza del ricorso alla prevenzione prodotto ad esempio dall’inadeguatezza dell0fferta e dei programmi di screening oncologci. Secondo i dati del Nord-est per la prevenzione del tumore mammario, l’85,2 % delle donne adulte ricorre a mammografie, segue il nord-ovest con 81,9 e il centro con l’80,7% e a distanza di parecchi punti il Sud e le isole con il 66,3%. Per il colon retto si sottopone a controlli il 70% dei chiamati in campo (adulti tra i 31 e i 60 anni e anziani over 60) nel nord est seguito dal 64,8% nel nord ovest e dal 56,4% del Centro, Sud e isole si fermano al 32,9. Queste circostanze impongono non solo razionalizzazione ma anche razionamento dell’offerta dei servizi a livello locale e spesso il decisore pubblico non ha lo strumento per scegliere, su quali ambiti prioritari di tutela assistenziale si deve maggiormente investire a svantaggio di altri, una volta stabilite le misure di “efficienza produttiva”.

Lo scopo di un osservatorio sanitario a guida interdisciplinare è quello di poter contribuire a dare informazioni valide sull’impatto atteso da ogni intervento di tutela della salute. Per fare queste scelte il decisore pubblico dovrebbe disporre di conoscenze adeguate su come si distribuiscono i benefici per caratteristiche demografiche e sociali della popolazione (età, genere, reddito, istruzione origine etnica). L’osservatorio dovrà radunare competenze ed esperienze professionali diverse per far conoscere anche alla politica l’impatto che, le stesse scelte del decisore pubblico, possono avere sui diversi livelli assistenziali. Un osservatorio sanitario per il mezzogiorno deve far conoscere alla società civile quale sia lo stato dell’arte delle misure attuative del PNRR a sostegno della tutela della salute nei suoi territori, specificamente riferite: 1)Al modello di ospedalità da adottare dopo l’emergenza pandemica; 2) All’integrazione ospedale territorio nel percorso di transizione digitale; 3) Allo stato realizzativo delle strutture assistenziali di prossimità nel nuovo disegno sociosanitario della medicina territoriale.

IL MODELLO DI OSPEDALITA’ DA ADOTTARE DOPO L’EMERGENZA PANDEMICA
Durante il picco pandemico vi è stata una significativa riduzione dei ricoveri ospedalieri e di visite specialistiche. Mancano ad oggi dati strutturali sulla reale mortalità di pazienti no covid, esiste però un report inglese che confrontando il numero dei decessi non attribuiti al covid durante il picco della pandemia, con la media dei decessi degli ultimi 5 anni, nello stesso periodo, ha evidenziato un eccesso di mortalità di quasi 10000 persone avvenuto per lo più al proprio domicilio. La riduzione dei ricoveri è stata principalmente a carico delle condizioni croniche che richiedono ricovero durante le riacutizzazioni. Abbiamo visto come sia possibile cambiare rapidamente funzione a posti letto in ragione dei bisogni richiesti. Ciò è avvenuto per motivi di emergenza ma dobbiamo farne tesoro anche in seguito. Un aspetto già realizzato nella progettazione dei nuovi ospedali concepiti secondo l’intensità di cura“. Dovremo pensare ad aree mediche non più separate da muri (e non solo strutturali) superando la concezione quasi “proprietaria” del posto letto, ma ampie zone in cui possono accedere malati indipendentemente dal loro quadro clinico acuto (farebbero eccezione particolari situazioni quale infarto acuto STEMI), lo stroke per le quali occorre predisporre aree flessibili attrezzate).

Ciò che è avvenuto per l’emergenza dovrebbe avere un seguito nell’ordinario. Già da tempo infatti sappiamo come la stragrande maggioranza dei ricoveri è legata a pazienti più anziani e con multiple morbilità dove l’evento acuto singolo è solo una parte del problema. Il ricovero in singole unità specialistiche appare superato. Durante la pandemia ci si è resi conto di quanto fosse necessario avere a disposizione macchinari efficienti non obsoleti. Si è fatto giustamente risaltare l’importanza dei ventilatori ma non dobbiamo dimenticare come anche l’ecografia a letto, di pazienti difficilmente spostabili (vascolare, cardiologica, toracica, addominale), ha facilitato la diagnostica e di conseguenza il trattamento. Nelle grandi aree mediche dovranno essere presenti letti” high care” almeno per il 20-30%, dotati di tecnologie per il monitoraggio dei parametri vitali con relativa centralina di osservazione e di controllo. Monitoraggio necessario in pazienti complessi, necessitanti trattamenti semi-intensivi o affetti da una patologia acuta grave, non solo per guidare il trattamento, ma anche per anticipare situazioni di potenziale instabilità.

IL PAZIENTE AL CENTRO DI TUTTO
Nel corso della pandemia abbiamo assistito al progressivo affermarsi del concetto ”il paziente al centro di tutto”. Prima era una espressione più teorica che fattuale. Infettivologi, pneumologi, internisti e gli specialisti di altre discipline, intervenivano sul singolo malato, ciascuno per le sue competenze, andando oltre quelle che fino a ieri era la singola, semplice consulenza. Abbiamo visto specialisti che vedevano il malato ogni giorno, anche più volte al giorno, una volta acquisita la richiesta per quel malato, facendosi carico della problematica per cui erano stati chiamati. Gli specialisti di organo e di apparato hanno dimostrato che una volta “liberati” dalle mura della propria struttura di appartenenza erano in grado di dare il meglio delle loro competenze trovandone anche giovamento professionale. Il fatto che il malato fosse stato assegnato ad un coordinatore di una unità medica, non creava nessun motivo di conflittualità professionale. struttura aperta. Il rapporto con i medici del territorio e, dove presente, con l’infermiere del territorio, deve diventare un percorso obbligatorio anche con mezzi informatici. Pe quest’ultimo punto è necessario che le regioni dotino i professionisti di strumenti informatici che dialoghino tra di loro e che si superino le attuali nefaste barriere legate alla privacy che i sistemi informatici sono comunque in grado di salvaguardare. Auspichiamo che il nuovo modello di ospedale possa prevedere il superamento della struttura ospedaliera suddivisa in reparti identificati per specialità. La cogestione grazie agli interventi di uno o più specialisti di organo, oltre agli interventi delle altre figure sanitarie (fisioterapisti, logopedisti ecc. ecc.), il tutto coordinato da un medico specialista in “care ospedaliera” che è “l’hospitalist” con definite competenze, al quale si attribuisce la gestione dell’intero percorso durante la degenza, la scelta delle priorità, la continuità con il medico di fiducia del paziente. La sua visione olistica per le sue competenze generaliste. L’hospitalist è in grado di gestire pazienti complessi e affetti da plurimorbilità sempre più presenti nei nostri ospedali.

L’INTEGRAZIONE OSPEDALE TERRITORIO NEL PERCORSO DI TRANSIZONE DIGITALE
Resistenze culturali, cattiva gestione delle risorse, infrastrutture carenti, sono queste le principali difficoltà di qualunque processo di digitalizzazione che va armonizzato in tutte le sue componenti evitando la frammentazione nei suoi diversi obiettivi funzionali che difatti interferiscono sulla interoperabilità delle informazioni e dei dati raccolti. Il primo obiettivo concerne proprio la digitalizzazione della documentazione clinica informatizzata sollecitandone la realizzazione graduale in tutti i reparti di diagnosi e cura insieme alla dematerializzazione dei referti. L’intento deve essere quello di arrivare alla dematerializzazione della documentazione clinica per poi poter far confluire queste informazioni nel fascicolo elettronico (in questo modo l’utente potrà portare con sé la propria storia clinica). Tutto ciò mette il paziente al centro e fa circolare i dati e le informazioni nel miglior modo possibile. Il che significa abbandonare il concetto di “fascicolo elettronico” inteso come documento fisso in un archivio fisico o virtuale, per andare verso un sistema dove i dati sono condivisibili da sistemi software che parlano lo stesso linguaggio. In questo modo non solo si garantirà a tutti la stessa accessibilità ai servizi ma si migliorerà l’offerta complessiva, realizzando nel nostro mezzogiorno le grandi dorsali regionali di trasmissione e comunicazione dei dati

L’osservatorio nei suoi compiti di monitoraggio della transizione digitale deve dotarsi di capacità catalizzatrice dei processi innovativi affidate nelle nuove modalità tecnico assistenziali quali quelle rappresentate dallo sviluppo della telemedicina strutturata sulle moderne tecnologie proprie della medicina digitale. L’osservatorio in tale contesto deve esercitare un’azione di stimolo corale nei nostri territori perchè la telemedicina diventi patrimonio definitivo della contemporaneità sanitaria del nostro mezzogiorno. Lo scopo pratico della telemedicina nell’immediato è quello di poter rigenerare un nuovo modello di medicina territoriale aumentando l’appropriatezza, la sicurezza, l’accessibilità, l’equità, la rapidità delle cure, indipendentemente dal luogo in cui i pazienti si trovano, consentendo di raggiungere i bisogni di cura anche delle comunità isolate dalla stessa impervietà dei loro territori. Appare evidente come la telemedicina non si debba etichettare semplicemente come “la telefonata” al paziente o come invio del file PDF del referto medico. Tala condotta se può essere ammessa nel periodo emergenziale dovrà essere totalmente rivisitata sul piano organizzativo e contenutistico da tutti i player del settore pubblico e privato a tutti i livelli. Occorre pertanto una strategia unitaria che permetta di definire un quadro regolatorio permanente a livello regionale e nazionale. È un ambito in cui l’osservatorio sanitario del mezzogiorno potrà esercitare un ruolo anticipatorio, di una policy di medicina di prossimità, affidata alla telemedicina e alle piattaforme tecnologiche su cui essa si stratifica al fine di garantire equità territoriale e sostenibilità dei costi.

L’altro problema che resta insoluto è come s’inseriscono questi costi nel consolidato quadro del servizio sanitario nazionale il testo di riferimento è stato diffuso dal Ministro della salute in tempi re centi. Si tratta dell’indagine nazionale per l’esecuzione di prestazioni di telemedicina che indica quale sia il regime di erogazione della televisita, il teleconsulto medico, la tele consulenza medica sanitaria, la tele assistenza da parte delle professioni sanitarie. Finisce l’era dell’improvvisazione e delle soluzioni “emergenziali “. Inizia un periodo che richiede la definizione di processi ben strutturati con soluzioni tecniche e professionalità adeguate. che molti medici di buona volontà hanno già intrapreso per far fronte ad una oggettiva necessita, bisogna ora procedere calando la telemedicina nel contesto clinico e assistenziale delle aziende sanitarie attraverso una stretta integrazione tecnicaorganizzativa- professionale. L’osservatorio in tale contesto deve esercitare un’azione di stimolo corale nei nostri territori del mezzogiorno perché la telemedicina diventi patrimonio definitivo della contemporaneità sanitaria dell’intero mezzogiorno. Occorre altresì anche normalizzare le tariffe commisurate alle diverse attività assistenziali erogabili in telemedicina. Finora infatti i diversi sistemi regionali hanno operato a macchia di leopardo. In realtà questo compito spetta alle società scientifiche che dovrebbero elaborare un protocollo ufficiale capace di stabilire cosa sia erogabile in telemedicina e cosa non può esserlo. Sarà la telemedicina a dare una reale declinazione funzionale alle strutture assistenziali di prossimità che sostanzialmente ancora oggi appartengono ad una concezione meramente virtuale della realtà sanitaria.

STATO REALIZZATIVO DELLE STRUTTURE ASSISTENZIALI DI PROSSIMITA’ NEL NUOVO DISEGNO SOCIOSANITARIO DELLA MEDICINA TERRITORIALE
Alla medicina di prossimità si rivolge un secondo ambito di interventi del piano nazionale di ripresa e resilienza 7 miliardi dedicati a tre tipologie modalità assistenziali attraverso:

1) Le case di comunità consentono di potenziare e riorganizzare i servizi offerti ai malati cronici, con un punto unico di accesso alle prestazioni sanitarie, con team multidisciplinari di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialisti, infermieri ecc.ecc. Si propone di realizzare 1200 case di comunità entro il 2026, attraverso utilizzazione sia di strutture preesistenti che di strutture nuove;

2) L’assistenza domiciliare che si propone di prendere in carico, entro la metà del 2026 il 10% della popolazione superiore ai 65 anni.

3) L’ospedale di comunità, una struttura dedicata al ricovero breve a media e bassa intensità clinica e per esigenze di breve durata (20-40 posti letto). Ebbene quale è lo stato dell’arte d queste realizzazioni che certamente daranno una svolta epocale alla medicina territoriale finora presente nel nostro paese, consentendo a livello regionale una gamma di dispositivi assistenziali che vanno dall’assistenza primaria. ai consultori familiari e all’area della salute mentale, salvaguardando, al contempo, le peculiarità e le esigenze assistenziali di ogni area del paese. Si vuole garantire la persona, indipendentemente dalla regione di provenienza, una tutela sanitaria che va dalla fase acuta alla fase riabilitativa. Si vogliono potenziare i servizi assistenziali territoriali, consentendo una effettiva esigibilità dei LEA prevedendo di superare, in tal modo, le frantumazioni e il divario tra i diversi sistemi sanitari regionali, puntando ad un percorso integrato, che parte dalla casa come primo luogo di cura, per arrivare alle case di comunità, agli ospedali di comunità, puntando ad un percorso integrato, superando le carenze di coordinamento negli interventi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali. L’osservatorio dovrà chiedersi in quale cornice organizzativa e strategica si collocheranno gli investimenti che deriveranno del piano nazionale di ripresa e resilienza La nuova organizzazione della sanità territoriale disegnata dal dereto DM71 è alquanto ambiziosa.

Grazie ai fondi europei costruiremo le strutture, acquisteremo le tecnologie e ammoderneremo quelle già’ esistenti, ma poi dovrà essere lo Stato e le Regioni a pagare gli stipendi del personale. Il rischio di riempire il paese di nuove case e ospedali di comunità che poi non siano in grado di funzionare è dietro l’angolo L’assunzione di 10- 20.000 infermieri come previsti dal decreto rilancio oscilla da 473 a 929 milioni di euro l’anno. Ma oltre agli infermieri, nelle strutture di comunità opereranno medici, altri professionisti sanitari, OOSS, personale amministrativo e di supporto. Appare evidente dunque quanto tali previsioni di spesa risultino insufficienti. In teoria dovrebbe essere la riorganizzazione dell’assistenza sanitaria a produrre i risparmi necessari (stimati 850 milioni all’anno) a finanziare il funzionamento delle nuove strutture. Nel breve-medio periodo non saranno la riduzione dei ricoveri in ospedale, degli accessi inappropriati al pronto soccorso, della, diminuzione dei codici bianchi al pronto soccorso, a procurarci risparmi adeguati alla cifra prevista. Saranno infatti i farmaci innovativi, le alte tecnologie, chirurgiche, le voci di spesa che più incideranno. È insomma impensabile collegare la sopravvivenza delle 602 centrali operative territoriali e degli ospedali di comunità alla mera ipotesi di risparmi prodotti da strutture ospedaliere già in affanno sotto numerosi punti di vista a partire dalla carenza di personale, problematiche che dovrebbero essere affrontate dalla revisione del DM70. Una riforma che a sua volta necessita di finanziamenti e che per poter dar vita ad una vera logica di filiera della salute dovrebbe andare di pari passo con il PNRR ed il DM71 e non viaggiare in autonomia. Occorre quindi immaginare sin da adesso una rivalutazione del Fondo Sanitario Nazionale (investire sulla sanità pubblica almeno il 7% del PIL) che consenta di sostenere nel tempo i costi delle strutture, del personale e delle tecnologie. Va poi previsto un piano straordinario di assunzioni anche all’interno degli ospedali migliorando le attuali condizioni di lavoro per incentivare i professionisti a lavorare nella sanità pubblica.

Tali perplessità danno ragione del fatto che in sede di approvazione del DM71 le regioni avevano posto alcune condizioni e cioè di attuare progressivamente gli standard e i modelli organizzativi previsti dal decreto attraverso una adeguata implementazione del fabbisogno di personale necessario dipendente e convenzionato ed una adeguata copertura finanziaria, con risorse che devono essere stabili nel tempo per poter sostenere i costi del personale assunto. Se tutto questo non dovesse succedere, quali sono le cornici organizzative e strategiche in cui dovrebbero realizzarsi le strutture assistenziali intermedie, le cure domiciliari. Si sta diffondendo l’idea che l’investimento nel suo complesso miri soprattutto ad incrementare l’assistenza domiciliare (si parla di 602 centrali operative) espropriando di fatto il distretto di una sua funzione caratterizzante quale quella di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari, relegando la direzione distrettuale a compiti burocratico-amministrativi. Una impostazione che richiama soprattutto risorse limitate, che richiama interessi privati ad opera di una mega imprenditoria sanitaria già allertata, dedicata alla produzione di servizi sanitari di diversa tipologia che persegue non certo logiche di profitto sociale o socio-sanitario ma semplicemente logiche di profitto interessate ad un incrementalismo prestazionale tout court.

Un incrementalismo che può essere a discapito dei livelli essenziali di assistenza, impedendo ai distretti, di rispondere ad una funzione di riqualificazione e potenziamento della medicina territoriale con l’attenzione piena ai soggetti fragili e più vulnerabili. Occorre sempre equilibrare gli interventi dedicati ai singoli individui partendo dagli specifici i bisogni insiti nella comunità in cui viviamo. Siamo nell’ambito della “personal care” e della “community care “. Ma il potenziamento e la riqualificazione della medicina territoriale richiede un cambio culturale ovvero il recepimento della primary health care, da anni considerata come prima occasione per costruire sistemi di salute pubblica i equi, validi e sostenibili. II distretti sono gli intrepreti ufficiali della primary health care che non si limita alla tutela della salute dal punto di vista biomedico ma comprende anche aspetti socioeconomici per le forti ripercussioni che questi hanno sulla vita delle persone. Questi sono gli aspetti fondamentali che vanno monitorati da parte dell’Osservatorio all’interno delle diverse realtà territoriali del nostro mezzogiorno.

Lo scopo è sempre quello di favorire una assistenza migliore ai cittadini rappresentata soprattutto dalla medicina generale ma in un setting più appropriato che si basa sulla necessità di un maggior interazione tra gli stessi medici di medicina generale, e i pediatri di libera scelta, i medici di continuità assistenziale e i medici specialisti. Ciò dovrà superare il senso di isolamento/ autoreferenzialità spesso caratterizzante la loro attività che saprà invece esprimersi al meglio in una nuova condizione di connettività professionale implementata degli strumenti tecnico-assistenziali generati dalla medicina digitale. Un cambiamento di scenario che deve avvenire attraverso un punto di regia unitaria quale quello del distretto, in quanto soggetto produttore di prestazioni, di interazioni d committenze, di governo clinico e organizzativo nella declinazione identitaria della medicina ambulatoriale, domiciliare residenziale ed intermedia. L’impegno civile dell’osservatorio deve essere primario nel costruire una comune visione della medicina territoriale in cui la struttura baricentrica è il distretto sanitario, naturale punto di raccordo di servizi integrati sostenuti da ogni innovazione tecnico-assistenziale. L’osservatorio non deve essere vissuto come “struttura di riferimento per addetti ai lavori”, ma come fonte di informazioni accessibili a tutti, repertorio di ogni intervento pubblico orientato all’equità sanitaria ma allo stesso tempo anagrafe delle disuguaglianze e delle discriminazioni che ancora oggi negano alle nostre popolazioni l’esercizio di un diritto paritario di tutela della salute.

 

Sebastiano ANDÒ
Il prof. Sebastiano Andò, ordinario emerito di Patologia e direttore del Dipartimento di Farmacia e Scienze delle Nutrizione e della Salute dell’Università della Calabria, Adjunct Professor presso il dipartimento di Biologia del College of Science and Technology della Temple University di Philadelphia.
E’ stato preside della Facoltà di Farmacia Scienze della Nutrizione e della Salute, dell’Università della Calabria. Direttore della scuola di Specializzazione in Patologia Clinica; Coordinatore del Dottorato di Ricerca in “Medicina Traslazionale”.
E’ oggi membro del’Advisory board del Centro sanitario dell’Università della Calabria; Membro del Board American Society for Investigative Pathology; Membro del Comitato Scientifico Nazionale dell’AIRC, Membro del Comitato di Selezione per le Scienze Mediche dei progetti FIRB e PRIN del MIUR; Autore di oltre 300 pubblicazioni internazionali è nella lista dei TOP Italian Scientists.