TARANTO – Si narra che Cicerone, alla fine della sua ultima invettiva contro Catilina, ormai in fuga da Roma, ad un collega senatore che lo aveva proclamato “patriae pater”, padre della patria, piuttosto scuro in volto, abbia risposto: sono lieto dell’onore che mi fai, ma temo, invece l’opinio vulgi, vale a dire cosa ne pensa il popolo romano di me. Che era per il democratico Catilina e non per il senatore Pompeo. Se ne accorse dieci anni dopo.
Ora, c’è un punto sul quale riflettere; Cicerone non sbagliava perché, per amore di gloria personale o di partito o di casta, non aveva tenuto presente che l’opinione popolare valeva molto di più del consenso senatoriale, chiuso nel suo egocentrismo nobiliare ed anche allora, da casta dominante.
Proprio Cicerone che suo “De of-ficis” aveva scritto parole eterne di verità politica ed etica. La politica è “servizio” allo Stato, meglio al popolo; non è un “lavoro”; è invece “offi-cium”. Non dunque un lavoro, com’è stato impropriamente detto, giorni orsono da un deputato in una trasmissione televisiva. Quel deputato dette l’impressione agli ascoltatori e ai partecipanti la trasmissione, di voler difendere il suo “stipendio” (trattandosi di un lavoro) e di opportuni riconoscimenti e ricompense e vitalizi successivi; insomma di una condizione di vita ben lontana da un “servizio” per il quale l’articolo 69 della costituzione prevede una indennità.
Un servizio reso al popolo e solo al popolo. Non è il suo un lavoro privilegiato, non può esserlo per nessun “eletto” per il semplice fatto che per quella elezione non c’è un concorso vinto, ma una testimonianza di stima e di fede che i suoi elettori hanno a lui temporaneamente reso perché degnamente rappresentasse il suo elettorato. Il concetto di “Lavoro” ha un’altra genesi e un altro concetto pragmatico di vita; anzi il rappresentante del popolo, finito il suo “servizio”, deve, dovrebbe, tornare al suo primiero lavoro (questo, sì, lavoro) o alla sua professione se prima una professione aveva.
Quello che sconcerta e che la politica per me, e non per pochi, è diventata una professione abbastanza lauta e, soprattutto, resa potente tra le “caste” e le “corporazioni” che non mancano in Italia; in quest’Italia democraticamente costituzionale. Si entra in Parlamento da giovani o giovanissimi e si rimane sino a tarda età; cioè, a volte, per oltre cinquant’anni. Anche ad avere meriti è opportuno, quanto necessario, che dopo alcune legislature chi è stato eletto torni a casa e dia spazio ai giovani che hanno nuove idee e sono nel cambio generazionale. Quel “servizio” allo Stato democratico è finito; torni alle quinte; altrimenti che democrazia sarebbe; sarebbe una oligarchia; il che è avvenuto e avviene nel nostro paese.
Abbiamo avuto parlamentari che hanno vissuto in Parlamento per una vita, altro che “indennità”; con stipendi e benemerenze varie e potenze acquisite e privilegi; e poi altri privilegi; e poi buonuscite cospicue. Appartengono a tutti i partiti e hanno festeggiato i loro compleanni tra sorrisi e adulazioni parlamentari. E come si può rigenerare una democrazia! La loro ricompensa è nella stima popolare prima e dopo! E poi certe facce il popolo non vuole più né vedere né sapere. Sono più vecchie delle loro idee. Talune poi hanno avuto la culla in Parlamento; e non metaforicamente. Tra Parlamento e popolo c’è un vuoto spaventoso; il popolo piange per infinite sofferenze; ma chi ascolta la sua voce? Vedo parlamentari sempre sorridenti dall’alto della loro “missione”; una missione ben stipendiata. Altro non aggiungo.