Una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infinitiattraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre. È la Frontiera. Non è un luogo preciso, piuttosto la moltiplicazione di una serie di luoghi in perenne mutamento che coincidono con la possibilità di finireda una parte o rimanere nell’altra.
A. Leogrande La frontiera, Feltrinelli
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Lo sviluppo di ogni essere umano deve evitare di esporsi al rischio di una koinè appiattente, priva di senso e di fondamenti critici fino ad avviarsi al pericoloso approdo a una omologazione totale in cui si cancellano le differenze. Nei rapporti interpersonali l’imperativo è porsi come realtà di persona di fronte a un’altra realtà altrettanto personale, senza negarsi e senza rinunciare alla propria proposta impegnativa di valori e di significati.
L’identità cammina nella libertà, ma non può sostenersi nel vuoto, cioè senza valori identificati e senza senso individuato. Le frontiere (dal latino frons-frontis: fronte) sono i luoghi in cui i Paesi e gli uomini che li abitano stanno di fronte e si incontrano. Questo essere di fronte può significare molte cose: guardare l’altro, acquisirne conoscenza, confrontarsi, capire che cosa ci si può attendere da lui o da lei. Solo la diversità/differenza ci pone, ci sollecita a interrogarci, a porci le domande. L’identità si guadagna nell’incontro/scontro con le differenze: con gli altri esseri umani, con le altre culture, con le altre tradizioni etniche. Non si può avere consapevolezza di sé al di fuori dell’esperienza dell’incontro e del conseguente confronto. Senza relazione con la differenza vi può essere solo indeterminazione: una vaga, confusa, errata riduzione del mondo a se stessi. Da qui non rari i deliri di onnipotenza, ma anche di inanità. Allargando lo sguardo affermava Nietzsche: «Il privilegio della nostra civiltà è il confronto. Noi possiamo raccogliere i più differenti prodotti delle civiltà antiche e confrontarne il valore; fare bene tutto ciò è il nostro compito» (Così parlò Zarathustra, 1883- 85, tr.it., Adelphi, 1976).
Nell’incontro/scontro,nella reciprocità, si ringiovanisce, si affina la capacità di socializzazione. Le altre culture non sono pensate come specie o razze zoologiche da cui guardarsi, ma come possibilità più ampie di scelta per migliorare la propria vita cominciando a rifocalizzare il proprio punto di vista. La comunicazione interculturale può costruire i ponti su cui transitano significati, strutture magari provvisorie, ma efficaci per estendere il mondo. Le frontiere sono anche luoghi di divisione e di contrapposizione, luoghi di esseri umani – soprattutto donne e bambini – che stanno di fronte, ognuno dei quali vigila ciascun altro. Stare di fronte allora significa badare, sorvegliare, non dare le spalle, che si danno solo a coloro che si respingono. Essere di fronte all’altro può essere, talvolta, anche un’insidia. Non a caso la parola fronte viene usata anche per rappresentare il massimo dell’ostilità, “il fronte”, la prima linea della guerra: è anche all’origine di fronteggiare (che è un verbo che si usa appunto per le battaglie), di affrontare, di affronto e di frontale, un aggettivo, quest’ultimo, che si usa quasi soltanto per parlare di scontri (bellici o automobilistici). Ci si può guardare e stare di fronte come i giovani americani che facevano il cosiddetto “gioco del pollo”, un’auto contro l’altra lanciate a folle velocità, vince chi non scarta e non si sposta rispetto all’altro. Come nella dialettica delle “autocoscienze opposte” di Hegel: in questo star di fronte è in palio il riconoscimento. Le frontiere più inquiete sono quelle che non vengono riconosciute. La categoria dell’altro non ha a che fare con una definizione sostanziale: non corrisponde a un’entità autonoma e individuabile in positivo, ma, al contrario, è sempre inserita in una relazione, generalmente di dominazione-subordinazione. I migranti, a differenza di come vengono per lo più rappresentati, non sono avatar della loro cultura.
La migrazione è allontanamento, distacco, è soprattutto ricerca affannosa di altre possibilità: il migrante spesso porta acqua al mulino della laicità culturale. Parole di questa nota che sarebbero state condivise e approfondite da Alessandro. La sua opera di scrittore umanante ci interpella e ci sollecita a non consegnarci all’alibi della scotomizzazione dell’altro, specie se migrante, né abbandonarci al facile abbraccio del disconoscimento della diversità, la quale è il solo antidoto al male della banalità, che è una nuova versione della “banalità del male”.