“Sol per il dolce suon della sua terra” (Dante, Pg. VI, 80)
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Nel suo duplice volume “Scrittori e popolo” e “Scrittori e massa” (Einaudi, Torino, pagg. 430-2015) Asor Rosa apre il suo ampio lavoro con un saggio sulla letteratura “populista” in Italia e lo dedica ai “vecchi compagni”. Già nella parola vecchi compagni si comprende subito che l’illustre letterato ha chiuso con un suo concetto di poesia e ne ha aperto un altro. Meglio di metodo critico più che estetico o di quella “ratio” che ha governato il suo pensiero tempo prima. Tuttavia si rifà ad un filosofo ungherese, senza nominarlo, che è padre di quella letteratura che fu definita “populista”. Quel filosofo e critico si chiama György Lukács.
Una forma di arte che avvertiva il valore dell’essere popolo come insostituibile in un momento storico che considerava il popolo motore e attore della Storia. Soprattutto nel saggio “Il dramma moderno” (1908) ed anni dopo nell’altro “Storia e coscienza di classe” (1923) nel quale, in prospettiva dialettica, riprendeva il concetto marxistico della vita e dell’arte in una documentazione posta nella vita economica e sociale degli uomini. Alla radice del pensiero di Lukács era la certezza di quel valore filosofico hegeliano dal quale era derivata la visione estetica, economica e sociale della realtà umana. Era, in ultima analisi, nella stessa revisione del pensiero hegeliano un trasformare la letteratura e l’arte di un tempo perché ideologicamente sotto la divisa di una forte classe borghese quando non imperialistica. Lukács professava ancor di più la razionalità della vita che per lui solo una rinnovata classe di popolo, nella concreta coscienza del lavoro, riorganizzata, poteva creare una nuova letteratura.
Nasceva da qui la letteratura “populista”. A tal punto, quel movimento “in ismo”, come tanti altri: Romanticismo, Illuminismo, Verismo, quel movimento del populismo piacque, in un primo accento, ad Asor Rosa; ma successivamente si distaccò da quel criterio d’arte perché portò il suo rapporto con “il popolo” e in tal senso si avvicinò al gramscianesimo come afferma nella introduzione alla prima edizione del volume (1965) che la sua era stata una battaglia di retroguardia perché quel populismo che considerava ancora l’arte come fenomeno di massa veniva sostituito dalla più evidente realtà di popolo; così Asor Rosa passa in rassegna nel primo capitolo i poeti e gli artisti italiani che considerarono il “popolo” funzione e mezzo di una realtà creativa ed essenziale: da Gioberti ad Oriani, da Carducci a Verga, dal Manzoni al De Amicis, dal Collodi al Giusti, dal Pascoli a Pasolini. Qui prendo in esame il vasto capitolo su Pasolini, che dopo quello su Carlo Cassola, Asor Rosa ha scritto: (pagg. 276-354).
Pasolini fu legato poeticamente al Pascoli e, in verità, confesso di aggiungere al mio studio pascoliano, questa lezione di Asor Rosa. In Pascoli, Pasolini vedeva una proletaria fisionomia artistica, un umanitarismo sociale e socialista ove nel poeta il popolo è protagonista di una visione nobile della vita. Il popolo come “proletario”: quello dei campi, delle officine, della famiglia; e basterebbe leggere la lirica “Al Serchio” per comprendere il tessuto vivente della poesia pascoliana: “O Serchio nostro, fiume del popolo! / tu vai sereno, come un gran popolo, / lasciate le placide cune, / muove all’officina comune”. Pascoli, nel suo discorso “L’Avvento” del dicembre del 1901 aveva scritto che alla base del suo socialismo era il certo e continuo invilimento della pietà nel cuore dell’uomo. Era, qui aggiunge Asor Rosa, quella del Pascoli un socialismo “pietistico” del popolo ma era anche una speranza che quel popolo sarebbe diventato protagonista della “la grande proletaria si è mossa”. Era la visione di un’Italia che creava da quel popolo contadino e lavoratore un fratello di vita umanamente sociale. Era la conquista della Libia (1911), ed era la meta di quel lavoratore non più migrante in America ma cittadino di una patria redenta. Per Asor Rosa Pasolini fu poeta e tale rimase anche dopo gli sconfortanti romanzi; del 1941-’43 del gruppo friulano di “Poesie a Casarsa”, del 1944-’53 i gruppi di poesia ancora in friulano “Suite friulana”, “Il Testamento” ed altre; del 1949-’50 il romanzo di ambiente contadino “Il sogno di una cosa” poi le sue poesie furono pubblicate nel volume “La meglio gioventù” (1954). Ma Pascoli, al di là di certi movimenti pasoliniani novecenteschi, fu sempre presente nella meditazione critica dell’artista Pasolini; Pascoli poeta della povera gente, poeta che piange ma poeta anche che, attraverso il suo pianto, infonde un senso di operosità sociale e di redenzione tra la povera gente.
Pascoli piange, laddove Pasolini legendo Pascoli sbraita; ma nel suo verso c’è certa musicalità del verso pascoliano; le terzine di origine dantesca; o altre liriche negli ottonari o nei novenari tipici di non poche poesie pascoliane: Pascoli scrive “La mia sera”, Pasolini “Umile Italia”; contenuti diversi ma stile metrico eguale. Pascoli non è un carducciano; Carducci nei suoi “Giambi ed Epodi” è un rivoluzionario, un giacobino; Pascoli, invece, è uno sperimentalista del ritmo, a volte, languido, più volte artisticamente pregevole; la sua lirica si svolge sovente tra il volto di una madre mesta e quella di una famiglia redenta nel progresso; non più popolo di massa, ma popolo della sua più alta socialità umana. Pasolini guarda a codesto Pascoli mentre si rifugia in Gramsci, ma, pascolianamente, nelle sue ceneri. Sembra una contraddizione, scrive Asor Rosa, ma fondamentalmente è una speranza. Certamente Gramsci è morto ma l’uomo risorge. È un rimpianto ma in tale rimpianto Pasolini, scrive Asor Rosa, è anche smarrito, querulo, incerto; la morte di quel giovane Tommaso in “Ragazzi di vita” è come il segno che la sua esistenza pur viva ma sconfitta. Non lo conforterà nemmeno l’essere un regista cinematografico; sovente ha presente, da una lirica pascoliana, quel cipresso che “scagliati al vento, piange alla bufera”. Così Pascoli; anche Pasolini chiude la vita, tragica, lugubre, disfatta in una notte nera.