Mezzogiorno tra Borboni, Sabaudi e briganti è quello raccontato da Carmine Pinto, professore ordinario di storia contemporanea all’Università di Salerno, nel suo lavoro storiografico “La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti” (Laterza). Il libro è stato presentato nei giorni scorsi al circolo Arci Gagarin di Taranto. Vi si narra il Meridione nell’arco del decisivo decennio che ebbe inizio nel 1860. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Il libro sul Mezzogiorno di Carmine Pinto
Professore, perché parliamo di guerra “per” il Mezzogiorno?
Perché il Mezzogiorno è l’ogetto della contesa. Vede, l’Italia, Sicilia compresa, entra serenamente nel biennio unitario. L’unico conflitto armato si registra nel Mezzogiorno. Nel libro si cerca di dare una risposta al perché nel Mezzogiorno si combatte un conflitto, che non possiamo neppure definire guerra, se non per pochi mesi, mentre ad esempio questo non accade in Sicilia che anzi è protagonista dell’unificazione italiana. La mia ricerca è una sorta di inchiesta giornalistica moltiplicata per dieci anni.
Perché, allora, questo conflitto?
Quel conflitto fu il risultato dell’incontro tra rivoluzione nazionale e conflitto civile che per quasi settantanni aveva spaccato e frammentato il Mezzogiorno. Parliamo dei conflitti tra repubblicani e sanfedisti, murattiani e borbonici, liberali e assolutisti, filoitaliani e borbonici. La guerra per il Mezzogiorno fu la conseguenza di queste tensioni.
Oggi c’è una letteratura piuttosto popolare che rimette in discussuone il processo di unificazione dello Stato italiano. Ma davvero si può arrivare a concludere che per il Mezzogiorno sarebbe stato meglio restare con i Borboni?
Tutte le volte che si utilizza il passato, questo è sempre funzionale al presente. Come storico credo molto poco all’uso pubblico del passato. La storia di quegli anni è veramente lontana da noi: in mezzo ci sono due guerre mondiali, il fascismo, la guerra fredda, il miracolo economico, i partiti di massa, la repubblica. È un mondo così distante, lontano anni luce da noi. Come ho detto, questo libro l’ho vissuto come una ricerca per raccontare una storia, fatta anche di miserie e passioni persino affascinanti, estremamente lontana dalla nostra epoca, per questo non credo ad una relazione col presente.
Oltretutto ci pare difficile immaginare il Mezzogiorno dei Borbono come un’oasi di benessere.
Benessere sotto i Borboni? Penso che non lo creda nessuno. Chi sarebbe oggi disponibile a vivere in uno stato assoluto, senza parlamento, senza elezioni libere, senza libertà di stampa? La monarchia borbonica si legittimava per dirittto divino, l’anticostituzionalismo era tra le sue ragioni fondative.
Da quel periodo è trascorso un secolo e mezzo, eppure si continua a parlare di questione meridionale come questione irrisolta. Perché?
Sono 150 anni che si scrive su questo tema. Lo hanno fatto Salvemini, Gramsci, De Viti De Marco, Fortunato, Dorso, Lombardi. Emerge un dato: il Mezzogiorno si ossessiona su se stesso, forse dovremmo toglierci questo fantasma di dosso. Forse il problema è connaturato al modo in cui ci autorappresentiamo. Quanto è stato utile dipingerci sempre come qualcosa di diverso? Diverso da cosa, poi, se pensiamo che la stragrande maggioranza dei gruppi politici e dalla struttura sociale settentrionale è fatta da meridionali?
Parliamo di Taranto: il sogno industriale del Mezzogiorno ripiegato su stesso. Perché tante difficoltà oggi a costruire prospettive diverse da quelle concepite tra gli anni ‘50 e ‘60?
Questo è un problema dell’Italia, non solo di Taranto. Il nostro paese negli anni ’80 era protagonista del capitalismo globale. Poi, tra gli anni ‘90 e gli anni duemila, ha mancato la globalizzazione. Certo, oggi Lombardia e Veneto sono riusicite a superare largamente questa crisi, ma nel frattempo abbiamo perso la chimica, la produzione aeroportuale, avevamo l’Olivetti e non produciamo cellulari. Credo conti moltissimo la cultura socio politica, questa idea continua della necessità di uno stato assistenziale.
L’Italia è ancora legata ad una idea assistenziale dello Stato?
Assolutamente sì. E poi siamo stati molto autodistruttivi. Negli anni ‘90 abbiamo distrutto un sistema politico senza aver fatto sorgere un sistema politico altrettanto forte. Abbiamo prodotto solo una crisi permantente. La generazioni successive della classe dirigente di allora non hanno fatto altro che riprodursi al ribasso, le leadrship emerse sono state fragili. La questione Mezzogiorno non può essere sganciata da tutto questo.
A cosa è dovuta la globalizzazione mancata?
A non avere avuto una classe politica forte. Il paese del rancore e del giustizialismo ha prevalso sul paese dell’investimento. Pur con tutti i difetti del caso, l’Italia dagli anni ‘50 agli ‘80 ha volato.
Le prospettive del Mezzogiorno?
Ci sono luci e ombre: da un lato c’è gente che cerca di fare impresa e dall’altra c’è chi vuole scappare.
Come sarebbe andata a finire se fosse fallita l’unificazione dell’Italia?
I “se” servono solo a giustificare le nostre aspirazioni, non a comprendere la storia.
Enzo Ferrari
Direttore responsabile