Storia del Castello
Non so quanti fra i lettori conoscano il Castello De Falconibus di Pulsano, che troneggia al centro della cittadina jonica con la sua possente struttura e le splendide torri, una delle quali, la più grande, di forma quadrata. Ma, accanto ad essa, ve ne sono altre quattro, di cui tre rotonde (visibili dalla parte posteriore), sicché la veduta d’insieme è ancora oggi di ammirevole bellezza.
Pare che, in origine, vi fosse solo la torre quadrata più grande e che il castello, o meglio il maniero preesistente, servisse da residenza di caccia, essendo stata la nostra zona in età antica ricca di boschi, di acque e di animali selvatici, specie nel tratto compreso tra Torre Castelluccia e Saturo (si pensi a Bosco Caggione e ad altre zone costiere). Siamo nel 1100 e la pirateria era molto sviluppata, per cui le coste orientali di Taranto venivano frequentemente attaccate e saccheggiate, e le popolazioni rivierasche costrette a rifugiarsi nelle aree interne dove sorgevano castelli e fortezze. Non a caso Pulsano, Leporano, Lizzano, Torricella, Maruggio hanno un loro castello, che aveva una funzione difensiva contro gli attacchi esterni, per non dire delle torri costiere, nate per lo più dopo il sacco di Otranto e l’invasione turca del Salento intorno al 1500 e volute dal re di Spagna Carlo V, che avevano una precisa funzione di avvistamento e di comunicazione : si pensi ad es. a Torre Sgarrata, a Torre Ovo, a Torre Colimena, disseminate lungo la costa.
A tal riguardo sempre interessante, ben documentata e riccamente illustrata, resta la pubblicazione promossa qualche anno fa dalla Provincia di Taranto “Le torri costiere per la difesa anticorsara in provincia di Taranto” , a cura di Attilio Caprara, Crescenzi, Di Somma ed altri, coordinamento e foto di Marcello Scalzo (Firenze 1982).
Ebbene, fu nel corso del 1400 che i padroni del Castello, i De Falconibus, che lo avevano riacquistato dopo che tra il 1270 e il 1388 era passato nelle mani di altri feudatari (i Sambiasi, i Dell’Antoglietta e i Petugj), provvidero al suo ampliamento e alla ristrutturazione. Fu proprio Marino De Falconibus che nel 1435 promosse con notevole impiego di risorse la trasformazione del maniero in un vero e proprio castello o, come sostengono gli esperti della materia, in una casa~fortezza, circondata da un fossato e munito di ponte levatoio.
L’epoca gloriosa e il sacco di Otranto
Ma l’epoca più gloriosa del castello è legata al nome di Giovanni Antonio De Falconibus, figlio di Marino, e all’anno 1480, data cruciale nella storia delle nostre contrade, Maometto II accarezzava il grande sogno di allargare i confini dell’impero verso Occidente e di occupare quello che rimaneva dell’impero bizantino ormai in via di dissoluzione. Infatti, il 28 luglio di quell’anno i Saraceni, che erano partiti da Valona e avevano intenzione di occupare Brindisi, importante nodo strategico, forti di 18.000 uomini e di un numero considerevole di navi, presero d’assalto la città di Otranto e la misero a ferro e fuoco. Da tutte le città e dai paesi circostanti si mossero, con un grande slancio di solidarietà, per portare aiuto ai cittadini idruntini, schiacciati dalla preponderanza delle forze nemiche, guidate dal gran vizir e abilissimo comandante Ahmed Pascià. Da Pulsano partirono quaranta giovani soldati, capitanati dal signore, Giovanni Antonio, e trovarono tutti la morte per difendere la città e la fede cristiana. I Saraceni non ebbero pietà per nessuno : infatti, poco fuori dall’abitato, sul Colle della Minerva, i cittadini furono chiamati ad abiurare la fede cristiana, ma essi non vennero meno al loro patto con Dio e la Chiesa. In Ottocento si sacrificarono, offrendo impavidi la testa alla mannaia del boia.
Poco prima i Saraceni avevano con ferocia inaudita fatto irruzione nel Duomo di Otranto e passato i fedeli per la spada, o meglio la scimitarra di triste memoria. Lo stesso Vescovo, mons. Stefano Pendinelli, uomo di coraggio e di fede, che si era messo davanti all’altare maggiore con i paramenti sacri a protezione del popolo di Dio, fu trucidato barbaramente e la cosa aveva suscitato grande scalpore.
I Pulsanesi, in memoria del sacco di Otranto e del sacrificio degli eroici figli, festeggiano l’8 settembre di ogni anno la Madonna dei Martiri, patrona della Città; inoltre tra Otranto e Pulsano fu istituito in occasione dei 500 anni del sacco di Otranto un rapporto di gemellaggio (1980).
Il sacco di Otranto tra cinema e letteratura
La presa di Otranto ha avuto da sempre una grande risonanza nel corso dei secoli e continua ad esercitare un grande fascino sulla memoria collettiva : infatti, storici, artisti, scrittori, cineasti e registi teatrali ne hanno rivisitato con passione le gesta ad imperitura memoria. A parte l’espressione rimasta tristemente celebre “mamma li Turchi!”, come non ricordare il film di quell’indimenticabile artista di Carmelo Bene “Nostra Signora dei Turchi” (1968), dove tra il grottesco e il surreale è rievocato il sacco di Otranto? Ma c’ è un libro che mi sta a cuore e al quale sono personalmente legato, “L’ ora di tutti” (1962) di Maria Corti, grandissima filologa e finissima scrittrice. Ho avuto l’onore di conoscerla personalmente e di prendere parte negli anni pisani ad alcuni seminari di lingua e letteratura italiana, tenuti dalla Corti, che all’epoca insegnava all’università di Pavia. La studiosa milanese, che all’inizio della carriera accademica aveva insegnato a Lecce accogliendo il consiglio del maestro Gianfranco Contini a rinunciare a Roma e a scegliere Lecce, era innamorata del Salento e aveva dedicato non pochi studi alla esplorazione delle tradizioni storiche, letterarie e linguistiche, compreso il griko, parlata tipica di quell’area nota come Grecìa salentina (studiata con passione dal linguista Oronzo Parlangeli).
Ebbene, il romanzo, ambientato proprio negli anni della presa di Otranto, è un romanzo ‘corale’ in cui i protagonisti sono i popolani che, spinti dall’amor di patria e dalla fede, si organizzano per difendere la città pur consapevoli di andare incontro alla disfatta. C’è un momento, dice la Corti nell’introduzione, che scatta per tutti noi l’ora X e quella fu proprio l’ora giusta per il popolo salentino. In una letteratura ancora dominata dalle istanze neorealistiche e che spesso scadeva nel bozzettismo di maniera, la Corti si muove tra storia e mito e introduce nuove soluzioni narrative e, soprattutto, fa del dialogo tra i personaggi, resi con plastica evidenza, uno dei principali strumenti di sviluppo e di resa artistica del romanzo.
Esso è suddiviso in cinque racconti fra di loro intrecciati, ognuno dei quali è narrato in prima persona da uno dei protagonisti, che ripercorrono le varie fasi della battaglia, la valorosa resistenza sino alla resa finale (mi piace ricordare almeno il pescatore Colangelo, il capitano Zurlo, la bellissima Idrusa).
Ne viene fuori un affresco vivace e ricco di fermenti, che esplora tra storia, psicologia e antropologia una pagina altamente drammatica e coinvolgente della nostra Puglia.