di Paolo Destefano
Riccardo Muti, oggi, il più celebre verdiano direttore d’orchestra, spesso suole o scrivere o ripetere versi: “Diede una voce alla speranza e ai lutti, pianse ad amò per tutti”.
Versi che dicono tutto, non solo della immensa arte musicale di Verdi, ma della sua grandiosa umanità e valenza psicologica, che lo rendono il musicista più celebrato e famoso nel mondo. Di chi sono questi versi? Di Gabriele D’Annunzio.
Per celebrare la morte del grande musicista, D’Annunzio scelse il metro più aristocratico e difficile della nostra letteratura: la Canzone già cara a Dante o al Petrarca. La canzone dannunziana si compone di nove strofe, di sedici versi ciascuna, con valori fonici differenti: dall’endecasillabo al settenario con rime alternate, così come nella struttura dell’antica canzone.
Fu stampata sulla “Tribuna” dal 28 febbraio 1901 e poi pubblicata dall’editore Treves in Milano. Si apre con i tre italiani più grandi: Dante, Leonardo e Michelangelo. I tre grandi scesero dal loro Olimpo per vegliare Giuseppe Verdi nella suprema ora del trapasso. Versi era “la melodia superiore della Patria”, dalle Alpi non ancora italiane alla Sicilia. La sua musica fu forza di vita e di bellezza; fu la vittoria del genio su tutti i tempi. I tre grandi d’Italia e del mondo riconobbero in Verdi il titano della musica, colui che aveva cantato tutti i sentimenti dell’uomo: dall’amore all’affetto paterno, dalla patria al gioioso o malinconico Falstaff. Nel finale della canzone, D’Annunzio affida alla sua lirica un compito: che si rechi a Roma e sulle torri o sulle chiese discenda come aquila e gridi agli italiani e al cielo/ verdi vuole l’Italia libera dalle Alpi al mare di Sicilia. Tutta la sua musica é un grido d’amore per la Patria: la nostra Italia.