Tutto il discorso di Draghi per ottenere la fiducia (ottenuta) delle due camere richiama, a chi scrive (già quarantennale docente ordinaria di Lingua Italiana per lo Stato), l’arte della Retorica che nell’età antica ha visto fior fiore di maestri: Gorgia e Protagora per la Sofistica di V secolo a.C., criticata da Platone perché ingannevole e vuota, Isocrate, retore ateniese che perorò l’unità panellenica in funzione antipersiana; per l’oratoria latina i discorsi di Marco Porcio Catone dotati di frasi taglienti con poche tematiche tra cui l’abolizione del lusso e degli sprechi e la difesa del mos maiorum, tradizione e costumi degli antenati, o l’Ars bene dicendi, di saper parlare bene in pubblico, insegnata da Quintiliano col suo modello educativo del vir bonus dicendi peritus.
La locuzione riferita all’uomo di valore esperto nel dire esalta le qualità morali dell’oratore ancora più importanti della tecnica del parlare; ma nel nostro caso i piatti della bilancia sono pari anche perché si avverte che chi ha parlato conosceva bene l’argomento, sulla base di una famosa massima, rintracciabile addirittura nei discorsi dell’avvocato greco Lisia nel Perì ton Attikòn Retòron, riportato da Dionigi di Alicarnasso, mutuato da Catone nella celebre frase rem tene verba sequentur: se l’argomento lo conosci le parole verranno da sole.
Ma di tanti antichi docenti di oratoria quello che più pare a chi scrive rispecchiare la retorica classica nel discorso del premier è il grandissimo Aristotele che nella sua Tekne Retorikè ha insegnato su quali cardini si deve basare un testo politico.
Per Aristotele, infatti, l’uomo è un
animale politico nel senso greco di polis, città-stato e quindi deve essere cittadino di uno Stato ma occorre la politica per governare lo Stato per il bene comune. Di qui l’importanza della retorica aristotelica basata su ethos, riferito alla qualità di chi parla per persuadere, chiedere la fiducia, scontata quando la suscita di suo come nel nostro caso; il pathos ricorrendo ad un linguaggio di tipo emozionale affettivo; il logos producendo argomenti ragionati e soprattutto cifre. Puntando sulla coscienza civica dei destinatari e la loro sfera emozionale, la fiducia a Draghi, dopo il suo discorso, è stata data.
Secondo lo schema delle funzioni linguistiche di Jacobson quando un testo ha lo scopo di ottenere la fiducia è scritto in un linguaggio politico con funzione persuasiva o conativa, per convincere a fare una scelta, un po’ come con la pubblicità.
Lungi dalla scrivente pensare che la fiducia sia un prodotto da vendere, ferma resta la convinzione che anche un discorso istituzionale come quello che abbiamo sentito non possa prescindere dalle regole linguistiche del linguaggio persuasivo; tant’è vero che le parole sono state riferite a precise aree semantiche quali impegno, dovere, azione, strumenti del potere esecutivo. E poi ci sono i contenuti che richiamano storia (Cavour), Costituzione, lavoro, economia, volontariato, scuola, cultura.
Il bel discorso ha avuto una parola protagonista: pandemia, nominata più volte, il mostro presente da combattere, con tante spire come fosse un’Idra di Lerna alla quale non basta mozzare una testa che ne nascono due come le varianti del covid.
La uccise Ercole nella sua seconda fatica. Ma Draghi non è Ercole con la clava; lui è stato indicato da un potere superiore (il Presidente della Repubblica), è stato calato dall’alto nella cavea del teatro parlamentare come un deus ex machina nella tragedia greca. Solo se le sue parole saranno azioni concrete potremo tirare finalmente un sospiro di sollievo, nella catarsi.