Il pretesto è la presentazione del suo ultimo romanzo. In verità la piacevole serata per “L’angolo della conversazione allo Yachting Club (realizzata con il sostegno della Bcc di San Marzano di San Giuseppe) è stata occasione ghiotta per conoscere la sua opinione sul cammino un po’ tortuoso di questo Paese e di Taranto, la sua città lasciata qualche decennio addietro per stabilirsi a Roma, dove il magistrato Giancarlo De Cataldo è anche diventato uno scrittore di successo, tra i più acclamati in Italia.
Magistrato o scrittore, dunque?
Sono due cose diverse. Le esercito tutte e due, ma sono sempre stato appassionato di scrittura. Non riesco a immaginarmi senza scrittura.
Parliamo del suo ultimo romanzo: “Alba nera”. Un titolo inquietante.
È un noir. La protagonista è una poliziotta di ottima famiglia – suo padre è un diplomatico – che scopre di essere affetta da triade oscura, un disturbo della personalità che comporta sociopatia, narcisismo, capacità di manipolare il prossimo. Anche per questo è un’ottima cacciatrice di criminali, perché capisce la loro psicologia. Ma teme di cadere nell’abisso, perché i mezzi possono prenderti la mano.
In “Romanzo criminale” e in Suburra” lei ha narrato le vicende della banda della Magliana e in qualche modo ha anticipato anche ciò che sarebbe accaduto con Mafia Capitale. Ha mai pensato di raccontare la mafia tarantina?
Sulla mafia tarantina ho scritto uno dei miei primi testi: “Acido fenico”, che è stato più volte rappresentato a teatro. È la biografia di un camorrista tarantino e si racconta la penetrazione della malavita nel siderurgico e nella politica. Per la prima volta fu messo in scena il giuramento della mafia. A Taranto quel testo fu rappresentato molti anni dopo perché, mi si diceva, qualcu no avrebbe potuto risentirsi…
Torniamo ai mezzi che possono prendere la mano: l’uso che viene fatto delle intercettazioni. Si riuscirà mai a trovare un punto di equilibrio tra diritto/dovere di cronaca, esigenze investigative e garanzie per chi finisce nel tritacarne delle intercettazioni? Anche lei, qualche anno fa, è finito in quel tritacarne.
Il punto di equilibrio si deve trovare. I giornalisti non rinunceranno mai ad una notizia anche se non ha rilevanza penale, perché prevale un’altra considerazione: la rilevanza morale. Ma c’è un aspetto più grande che va affrontato: la vera emergenza oggi è il fake sui social. Credo sarebbe interessante e opportuno abbassare i toni. Bisogna chiedersi cosa resta di campagne che distruggono le persone.
Questo è l’effetto di un certo giustizialismo che si è affermato nel nostro Paese.
Più che di giustizialismo parlerei di populismo giudiziario. Oggi chiunque si ritiene in dovere di intervenire su una sentenza senza sapere di cosa si sta parlando e spingendo perché si prendano decisioni che piacciono al popolo. Tutto ciò viene amplificato a dismisura anche dalla carta stampata e questo rende difficile l’esercizio della giurisdizione, che è un fatto tenico e che ha bisogno di tempi e rispetto dei tempi. L’Italia è il paese della cultura della pena mite. Grazie anche agli insegnamenti del diritto canoninco, abbiamo imparato a far convivere esigenze repressive con la finalità di riscatto della pena. Adesso una manciata di tweet rischia di distruggere centinaia di anni di cultura. Bisognerebbe che i saggi facessero una riflessione su questo.
Sembra che il principio si sia capovolto: da innocente fino a condanna definitiva a colpevole fino ad eventuale assoluzione. Da magistrato cosa ne pensa?
Questa è una domanda che andrebbe girata a certi giornalisti più che ai magistrati.
di Enzo Ferrari
Direttore Responsabile