Le erbacce divorano la vite. Il vigneto è abbandonato. Accanto c’è un campo di meloni gialli. I frutti sono lì, seconda scelta. Nessuno li raccoglierà, resteranno a marcire. «La spesa non vale l’impresa. Vale per l’uva come per i meloni», confida il proprietario con disappunto. I costi del raccolto supererebbero i margini di guadagno. Colpa del mercato, di prezzi alla produzione troppo bassi, anche se poi schizzano verso l’alto sulle bancarelle al dettaglio.
Castellaneta, cuore dell’agricoltura tarantina con i suoi 27mila ettari di terreni coltivati. Di là scorrono veloci le auto sulla statale 106; di qua, fra strade vicinali, tratturi e trattori il tempo scorre molto più lento. Accanto a vigneti abbandonati ci sono tendoni rigogliosi, grappoli magnifici che esaltano i sensi: sono un piacere per la vista, l’olfatto e il gusto. Hanno il sapore della fatica e della passione. Dei braccianti e dei produttori.
«Oggi la giornata è umida, un problema in più perché l’umidità favorisce la muffa e serve più manutenzione per togliere i chicchi marci. Un lavoro per il quale non bastano le forbici, ci vuole soprattutto abilità nella mano», osserva Raffaele Ignazzi, imprenditore agricolo e dirigente della Cia Due Mari, una delle associazioni di categoria nelle quali si raggruppano gli agricoltori tarantini. L’uva è delizia ma, in questo momento, soprattutto croce dei produttori. Combattere fra strozzature di mercato e costi di produzione è diventato davvero complicato. La forbice è enorme. Proprio la Cia Due Mari in queste settimane ha lanciato l’allarme: ai produttori l’uva viene pagata 60 centesimi al chilo, al dettaglio il prezzo arriva a toccare anche i 6 euro. Nel mezzo ci sono passaggi e dinamiche che a volte sfuggono agli stessi produttori. «I prezzi che ci vengono riconosciuti – spiega sempre Ignazzi – sono troppo bassi. I nostri margini sono risicatissimi. Se riduciamo i costi, risparmiando su manodopera, concimi, trattamenti, il prodotto diventa scadente e quindi non vendibile».
L’uva regina della zona è l’Italia. «Ma la stiamo perdendo a vantaggio dell’uva apirene, che è in mano alle multinazionali». E qui si apre un mondo sconosciuto ai più. Le varietà di uve pregiate, infatti, sono brevettate.
«I brevetti – racconta Francesco Miraglia, delegato della Cia Due Mari – sono in mano a tre-quattro multinazionali». Società californiane, spagnole che poi dettano legge sul mercato. E oggi uno dei mercati più redditizi è quello dell’uva apirene, l’uva senza semi che sta guadagnando sempre più spazio sulle tavole degli italiani. Acini comodi da mangiare, dietro i quali però si nasconde un sistema di mercato a forma di imbuto: «Noi produttori acquistiamo le piante e paghiamo le royalty ai proprietari del brevetto che ci impongono anche i grossisti a cui vendere il prodotto. In Puglia i grossisti sono cinque-sei. Oggi ci obbligano a metterci a carico nostro anche taglio e trasporto, costi che prima erano a carico dei grossisti. Persino le offerte speciali vengono fatte a spese nostre. L’effetto è quello di innescare una concorrenza al ribasso che ci distrugge. Troppe strozzature tra costi, sistema di mercato e regole da rispettare».
«In Spagna – dice Ignazzi – ci sono politiche agricole che aiutano ad abbattere i costi, qui invece ci sono troppe rigidità, per questo vediamo tanti terreni abbandonati. I giovani non sono incentivati e non è incentivata neanche la ricerca. I nostri migliori agronomi vanno in Sudamerica a sperimentare e creare nuove varietà. Se i brevetti fossero nostri, la situazione cambierebbe radicalmente. Purtroppo è almeno da dieci anni che in Italia l’agricoltura è abbandonata a se stessa».
Ci si trova invece a combattere con queste forme di oligopolio che rendono sempre meno agevole la produzione. «Un vigneto dura quindici anni e costa in media 30 mila euro; in questi quindici anni devi cambiare i teli di copertura tre volte, una ogni cinque anni e sono altri costi». Se queste sono le condizioni, più che la produzione è incentivata la fuga: «Alcuni nostri agricoltori – rivela Miraglia – si sono trasferiti in Albania dove una giornata di lavoro costa 8 euro. Da noi, invece, a tariffa sindacale una giornata costa 55 euro. Reggere questa concorrenza è impossibile. Non possiamo competere con paesi come Turchia e Marocco dove la manodopera costa molto meno e, soprattutto, non ci sono i controlli che ci sono qui da noi. Noi, ad esempio, abbiamo i migliori prodotti fitosanitari, i più puliti. Se trasgredisci finisci per essere etichettato come delinquente. Abbiamo fiducia nel nuovo ministro Teresa Bellanova, che nei campi ha lavorato e conosce bene quali sono le difficoltà della nostra agricoltura».
Le difficoltà di mercato, però, sono in parte attribuibili anche alla eccessiva frammentazione dei produttori. «Sì, è vero», ammettono Ignazzi e Miraglia. «In Spagna ci sono cooperative con migliaia di produttori che quindi assumono più forza contrattuale. Qui invece restiamo piccoli e le difficoltà aumentano. Ma è anche vero che abbiamo scarsa voce in capitolo all’Unione Europea».
«Dei nostri problemi si parla poco», sbotta Antonio Staffieri mentre vigila sui suoi tendoni. «Qui – dice – dobbiamo fare i conti anche con i furti. La notte siamo costretti a fare la ronda perché se non stai in guardia in pochi minuti rischi di perdere quintali di prodotto».
Il mondo dell’uva, quindi, non è così dolce come il sapore degli acini a tavola. Etra qualche settimana potrebbe aprirsi un altro amaro capitolo: «Quest’anno – dice preoccupato Ignazzi – a causa della grandine rischiamo pure di non avere gli agrumi».
Enzo Ferrari
Direttore responsabile