La settimana che va dal 3 al 9 novembre non presenta appuntamenti tradizionali religiosi particolari per cui il prof. Antonio Fornaro si soffermerà sui prodotti della terra che da sempre hanno caratterizzato l’autunno dei tarantini facendo scrivere una pagina interessante relativamente ad alcuni cibi della nostra tradizionale culinaria.
Questa settimana si festeggiano i seguenti santi: San Carlo Borromeo, gesuita, vescovo e cardinale che morì all’età di 46 anni. Il suo nome significa “uomo forte”. E’ patrono di Milano dei catechisti e dei vescovi.
A San Marzano di San Giuseppe esiste l’unica parrocchia della diocesi tarantina dedicata al Santo. Il tutto deriva dal fatto che nel 1500 San Marzano faceva parte del Principato di Oria che era gestito dalla nobile famiglia dei Borromei dalla quale discese San Carlo. Si festeggiano anche i santi Elisabetta e Zaccari, cugini della Madonna; San Leonardo che aiutò una regina a partorire in una vasca; Sant’Ernesto che partecipò alle Crociate, San Baudine di Tours che è invocato perché cada la pioggia ed, infine, san Teodoro Martire che prima di essere bruciato subì la ferocia di vedersi strappata la pelle.
Questa settimana la Chiesa Cattolica venera la Madonna sotto i titoli di Nostra Signora del Suffragio, Del Paradiso, Del Soccorso, Del Rimedio, Della Montagna e Della Buona Morte.
Questi i detti della settimana: “Ordine e disciplina, la miseria non si avvicina”, “Peccato vecchio, penitenza nuova”, “Se Dio vuole, mancare non può”, “Disgrazia del cane, fortuna del lupo”.
Queste le effemeridi di Giuseppe Cravero: “Il 4 novembre 1930 fu inaugurato il Monumento ai Caduti, opera dello scultore Francesco Como, alla presenza di Vittorio Emanuele III.
La piazza si chiamava precedentemente Piazza XX Settembre.
Sul piedistallo dei due gruppi bronzei si leggono due epigrammi di Alessandro Criscuolo. Sempre sul monumento sono riportati i nominativi dei 500 caduti in guerra.
Il 4 novembre 1935 fu inaugurato a Lungomare il Palazzo delle Poste, opera dell’architetto Cesare Bazzani. Consta di tre piani, di un piano interrato e di una torre quadrata panoramica. L’opera costò tre milioni di lire e sulla facciata ha sei statue. Il 7 novembre 1911 Vittorio Emanuele III venne a Taranto per visitare nell’Ospedale Militare i feriti trasportati nella città bimare che erano stati colpiti nella guerra che l’Italia combatteva con la Turchia per la conquista della Tripolitania.
E adesso parliamo della buona frutta stagionale.
Della zucca diremo che oggi viene usata per essere cucinata ma anche per essere ritagliata e dare forma ai mostri di Halloween. Ma Taranto ha certamente qualcosa di più importante per quanto attiene la zucca, infatti nel Museo MarTa ci sono zucche fittili del III secolo a.C.
Oggi le castagne che si consumano si raccolgono nei boschi della vicina Basilicata ma, secoli fa, Taranto era famosa per la sua produzione di castagne. Quelle di media grandezza venivano fatte bollire e l’acqua derivata e riscaldata rappresentava un vero “toccasana” per curare la prima tosse della stagione.
Le castagne ci riportano alla mente l’immagine della vecchietta che le vendeva nella Città Antica in cartocci improvvisati. Alle castagne sono legati due proverbi: il primo recita che la donna è come la castagna che sembra buona da fuori e da dentro è fracida; l’altro recita che una persona che è stata colta sul fatto è stata presa in castagna.
Altro frutto autunnale era quello dell’albero del melograno che noi tarantini chiamiamo con il nome di “sete” non perché abbia attinenza con la sete, intesa come bisogno di bere acqua, ma perché “sidi” era il nome greco del frutto del melograno. Esso era segno di buon augurio e di fertilità e si metteva sulle mense nuziali.
Il terzo frutto tipico della stagione è la mela cotogna che noi abbiamo sempre mangiato cotta al forno, lo stesso dove le nostre nonne portavano il pane da infornare. Le nostre mamme facevano la marmellata con le mele cotogne. Questo frutto era originario di Cidone, una città dell’Isola di Creta. A Taranto chi ha il volto adirato viene indicato come persona che ha la faccia di un cotogno.
L’ultimo frutta della quale ci occupiamo è il loto o caco che noi tarantini chiamiamo “pigliancule” perché alcuni cachi acerbi prendono alla gola e lasciano un grande fastidio sul palato.
Noi bambini mangiavamo i cachi mollicci. In dialetto tarantino un ragazzo denominato “pigliancule” è un ragazzo vivace e burlone, ma questo termine era anche un soprannome della Taranto di ieri.