Cinquemila. Cinquemila esuberi. Quelli che indica Arcelor Mittal. Siamo all’alba del 2020, ma quella cifra ha un precedente illustre nella storia dello stabilimento siderurgico di Taranto. Di quella cifra aveva già parlato negli anni ’80 Hayao Nakamura, numero uno della Nippon Steel chiamato a dirigere le Partecipazioni Statali e a rimettere ordine nello stabilimento tarantino nel tentativo di portare in efficienza la più grande acciaieria d’Europa.
In un volume pubblicato anni più tardi (Il paese del sol calante, Sperling & Kupfer, 1993), Nakamura racconta la sua esperienza tra i Due Mari. E dice: «Nell’industria al crescere delle dimensioni i problemi si moltiplicano in maniera esponenziale e c’è un limite oltre il quale la sfida diviene un suicidio». Il mago dell’acciaio giapponese punta il dito contro il raddoppio dello stabilimento: cinque altiforni mai all’altezza produttiva di quelli del gemello di Kimizu, tanti sprechi e gravi problemi di manutenzione. Nakamura ci aggiunge anche i costi per trasportare l’acciaio di Taranto sulle rotte dei mercati: trecentoventi miliardi di lire. La sentenza è inequivocabile: per essere competitivo il IV Centro siderurgico avrebbe dovuto «ridurre la manodopera di cinquemila persone». Erano gli anni ’80 e quelle cinquemila persone andavano calcolate su un totale di ventimila dipendenti o giù di lì. Tanti ne occupava allora quell’enorme stabilimento prima che cominciasse a ripiegarsi su se stesso, già al tramonto di quel decennio con la prima sfornata di prepensionamenti. Certo, la proporzione non regge. I cinquemila di oggi fanno molto più male dei cinquemila di allora. Ma questi corsi e ricorsi sono indicativi di un dato: il sovradimensionamento di quella fabbrica se non può o non riesce ad essere al massimo della produttività. Allora come oggi.
Lunga vita.
Vi è di più in quella lucida e spietata analisi di Nakamura e della sua condanna al gigantismo industriale (allora) di Stato. Vi è l’indicazione dell’aspettativa di vita di uno stabilimento di quelle dimensioni: «Un impianto a ciclo integrale, con una buona manutenzione, può rimanere in esercizio anche per cinquant’anni di seguito. Quello di Taranto è il più recente di tutto il continente e potrà ancora funzionare per venti o trent’anni». Facendo due conti, lo stabilimento nato nel ‘60 non avrebbe potuto andare oltre il 2010, anno più anno meno. A patto, appunto, di essere curato «con una buona manutenzione». Siamo all’alba del 2020 e le cronache ci raccontano che la carenza se non addirittura l’assenza di manutenzione ha ridotto la più grande fabbrica italiana in un complesso industriale ormai diventato difficilissimo da gestire. E se oggi siamo sull’orlo dell’abisso è perché anno dopo anno si sono accumulati errori, responsabilità, omissioni, colpevolissime distrazioni. Esattamente come accaduto per la questione ambientale.
A riparo di vento.
Ancora una volta è Nakamura che ci aiuta a riannodare i fili della storia.
Resta muto il manager, seduto su uno dei tavoli apparecchiati della mensa di stabilimento, quando i suoi tecnici gli chiedono per quale ragione gli italiani «avessero costruito quell’enorme stabilimento in mezzo a una campagna sterminata, senza fabbriche intorno, in un posto che sembrava fatto apposta per pescare e coltivare gli ulivi». Non potevano sapere quei tecnici giapponesi che quella fabbrica, quella cattedrale nel deserto, l’avrebbero costruita – come disse più tardi qualcuno – anche al centro della città, tanta era la fame di lavoro, tanto era forte il desiderio di fermare i propri cari che valigia in mano partivano con i biglietti di terza classe per Milano o Torino, per la Svizzera o la Germania o per le fabbriche siderurgiche di Dunkerque. Una fame che pesci e olive da soli non potevano placare.
Non potevano certo saperlo i giapponesi che per individuare il luogo dove costruire il più grande centro siderurgico d’Europa a Taranto si scatenò una feroce battaglia senza esclusione di colpi tra lobby di proprietari terrieri e rampanti della speculazione edilizia. L’Italsider però sapeva già che quell’impianto qualche problema l’avrebbe creato. Perché la questione ambientale nasce molto prima del 2012. Quello è solo l’anno in cui migliaia di tarantini – ai più svariati livelli – se ne sono accorti, credendo di assolvere il proprio letargo mandando sul patibolo prima Riva ora Arcelor Mittal e con loro i Clini, i Monti, i Letta, i Renzi, i Calenda e via discorrendo. Questa è narrazione buona per essere urlata sui social. La storia invece ci racconta altro. Ci dice che la preoccupazione per gli effetti dei fumi sulla popolazione era ben presente sin dalla costruzione del siderurgico. La stessa Italsider, in un opuscoletto informativo che porta la data del 1964, ci tiene a far sapere che «creando a Taranto potente strumento di produzione e di sviluppo economico e sociale, ha avuto come principale preoccupazione quella di far sì che la nuova iniziativa si integrasse nel modo migliore con l’ambiente, senza creare in esso delle fratture».
E ancora: ««Particolarmente studiata – si legge ancora – è stata
l’ubicazione dello stabilimento, posto ad oltre cinque chilometri dal centro cittadino (…). La distanza tra la città e lo stabilimento è sufficiente ad evitare che il centro urbano sia interessato ai fumi industriali». Il centro urbano, appunto. Non i Tamburi che già c’erano e dei quali, evidentemente, non si erano accorti.
«Il problema dei fumi, infatti – è scritto ancora in quell’opuscolo – è stato oggetto di attenti studi anche a Taranto, tenendo conto, in primo luogo, dei venti che maggiormente spirano nella zona e, in secondo luogo, prevedendo l’adozione di speciali filtri che possono ridurre sensibilmente il volume dei fumi ed eliminarne gli eventuali inconvenienti».
Distrazioni di massa.
Gli inconvenienti, purtroppo, si spiegheranno in tutta la loro venefica potenza negli anni a venire. Dagli studi coordinati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità tra il 1980 e il 1987 si evince che a Taranto si moriva
di tumore da inquinamento. E la politica – fa quasi strano leggerlo oggi – si muove per porre rimedio: il 30 novembre del 1990 il Consiglio dei Ministri vara il decreto col quale Taranto viene dichiarata “area ad elevato rischio ambientale”. Tutto chiaro già allora. I giornali scrivevano pure i dati dei tumori in aumento ma forse a leggerli costava troppa fatica, i medici diagnosticavano e, tranne rarissime eccezioni, non si indignavano, i due-tre ambientalisti che denunciavano accompagnati dall’eco della stampa rischiavano di finire sotto processo. Soprattutto quando dalle denunce affioravano certi strani intrecci d’affari tra chi doveva controllare e chi doveva essere controllato. Forse con qualche benevolo silenzio di troppo nei piani alti della giustizia.
Né i tarantini riuscirono a destarsi quando – correva l’anno 1995 – il sindaco di allora, Giancarlo Cito, populista ante litteram, decise di spaventare Emilio Riva appena approdato a Taranto. Ecco allora la commissione d’indagine guidata dall’assessore all’ambiente, il chimico Vittorio Ugo Carone, che compie una serie di ispezioni all’interno dello stabilimento. Carone mette nero su bianco tutta una serie di situazioni d’allarme: pericolosità di scarichi in mare, emissioni in atmosfera, discariche per rifiuti tossici e nocivi, amianto, apirolio, rischi di incidente rilevante. La relazione dell’assessore, però, non innesca alcun effetto: resta stranamente chiusa nei cassetti degli uffici comunali e – si deve dedurre – non sortisce effetti neppure alla Procura della Repubblica a cui quelle pagine erano state spedite.
Poi, a distanza di sei anni, arriva l’ordinanza che scuote la città: il nuovo sindaco Rossana Di Bello ordina lo spegnimento delle cokerie. Sembra la svolta per avere finalmente una fabbrica a misura di respiro. Da quegli atti nasce uno storico atto di intesa che prevede, fra le altre cose, il risanamento del rione Tamburi: foresta urbana, demolizione delle fatiscenti case parcheggio, nuovi alloggi per gli abitanti di via Troilo e via Deledda. E sì, perché l’evacuazione della fascia a ridosso delle ciminiere era prevista già allora. Tutti progetti rimasticati dalle amministrazioni successive e rimasti largamente inattuati, fatto salvo il recentissimo avvio della progettazione della foresta urbana. Il resto è cronaca recente.
La catastrofe si poteva evitare. Una città più attenta forse avrebbe fatto di Taranto una moderna capitale industriale. E a conoscere un pizzico di storia forse ci risparmieremmo anche tanti inutili ruggiti da tastiera.
Enzo Ferrari
Direttore Responsabile