Hiroshima e Nagasaki sono nomi dalla capacità evocativa unica. Portano alla mente la follia della distruzione come sistema di dominio, ricordano la fine della Seconda Guerra Mondiale e soprattutto identificano la bomba atomica. Gli Stati Uniti la usarono due volte, nel giro di pochi giorni, in quell’agosto del 1945 con un doppio obiettivo: atterrare le ultime resistente giapponesi e mostrare all’Unione Sovietica la consistenza del proprio armamentario nucleare, al fine di scongiurare i suoi piani di invasione su vasta scala. Molti storici sono propensi a esaltare questo secondo obiettivo rispetto al primo, dal momento che l’Impero del Sol Levante era già allo stremo, vicino alla sconfitta comunque.
Ebbene, c’è chi ha sostenuto già da qualche tempo che gli Stati Uniti anticiparono sul filo di lana la stessa Germania di Hitler nella messa a punto e nell’impiego delle armi nucleari e comunque non si può dubitare che il führer ci stesse lavorando alacremente e ci facesse affidamento al punto tale da vantare pubblicamente il possesso di una sua arma segreta. Ma c’è chi ha sostenuto, e lo fa ora con più forza che, se gli Stati Uniti poterono portare a compimento il loro programma nucleare e impiegarne tempestivamente i risultati, con la stragi dimostrative delle due città giapponesi, che secondo alcune stime provocò oltre 200.000 vittime, ciò avvenne grazie proprio al know how tedesco. In quel momento, sostengono, era più avanzato di quello americano, ma non era stato portato a compimento, forse anche a causa della mancata individuazione di un innesco efficace, ma soprattutto della defezione dei progettisti, primo fra tutti quel Martin Bormann che si accordò con gli Stati Uniti e si trasferì poi nell’America Latina.
È quanto sostiene Carter P. Hydrick in “L’atomica nazista – Come la Germania di Hitler riuscì a produrre l’uranio arricchito ad Auschwitz e a usarlo per trattare con gli Usa”, la cui nuova edizione, riveduta e ampliata, è stata per la prima volta tradotta in italiano ed è appena apparsa per i tipi di Castevecchi editore. A curare e a tradurre dall’inglese quest’ultima edizione, che ha l’ambizione di sciogliere anche i dubbi che la precedenti edizioni avevano lasciati aperti, relativi soprattutto al mancato ritrovamento in Germania di acqua pesante e uranio arricchito, indispensabili alla preparazione dell’atomica, è Francesco Maria Fabrocile, studioso e giornalista di vaglia, che per anni ha collaborato, quando era ancora giovane studioso, con la pagina culturale del “Corriere del giorno”. Ebbene, Fabrocile nella sua introduttiva, spiega come l’idea di proporre anche al pubblico italiano il contenuto di “Critical Mass” (il titolo originale del saggio), sia nata da una scoperta “suggerita da una rilettura di più storie, principale testimone il Primo Levi di Se questo è un uomo”. Levi, laureato in chimica, era stato reclutato al lavoro nel Chemiker Kommando di Auschwitz-Monowitz cuore dei processi industriali della Buna, la megafabbrica del colosso I. G. Farben, in cui lavoravano, giorno e notte a ciclo continuo 4.000 deportati e che apparentemente produceva gomma sintetica. Na non un grammo di gomma venne fuori dai processi produttivi.
“Il Levi chimico – scrive Fabrocile – può solo intuire come nella Buna sia in atto una fabbricazione di un golem oscuro e mortifero, ma una reticenza autoprotettiva lo tutela durante l’esperienza del Lager e della sua stesura, di poco successiva”. Ma nel raccontare l’incontro con un amico, Bonino, apprende che questi ha ricevuto come “ricordino”, da due tedeschi in fuga, un pezzetto di uranio.
Successivamente, le notizie iniziano a trapelare, con le me testimonianze di esperimenti nucleari fatti dai tedeschi. Ma perché tutto viene taciuto? Semplicemente perché gli Stati Unito vogliono nascondere la verità: “Gli Usa ottennero dunque testate atomiche e tecnologie di innesco dai nazisti in rotta, in cambio di protezione (vita natural durante, ma anche post mortem evidentemente) dei più alti papaveri del nazismo, Martin Bormann in testa”.
Nel suo densissimo volume, lo stesso autore, che riproporrà i risultati quindici anni di intensa ricerca (anche negli archivi segreti nei quali per primo metterà il naso), racconta come essa sia stata ostacolata in tutti i modi dalle autorità, cosicché la prima edizione del volume si rivelerà commercialmente un flop. E racconta i dubbi che seguirono la sua uscita, primo fra tutti, come detto in apertura, il mancato rinvenimento di residui di lavorazione. “Rimasi sorpreso – scrive l’autore – di trovare notizia nel «Daily Mail» del Regno Unito (13 luglio 2011) di 126.000 barili di uranio esaurito proveniente dal programma di bomba atomica nazista, trovati in una miniera di sale fuori Amburgo. La notizia poi dichiarava che la scoperta dimostrava che la mia ricerca, le mie scoperte, erano corrette. Cosa che è”.
Un lavoro intrigante, questo, che non mancherà di interessare tutti gli appassionati di storia.