Ebbene sì, nonostante questo maledetto ‘covid 19’ si può e si deve pensare anche alla Storia (con la maiuscola), tanto per non smarrire le coordinate della nostra esistenza e perché credo che, oltre il rispetto e la profonda commozione, forse è un bel modo per onorare i morti di tutto il pianeta accomunati da un balordo destino. Perciò trovo riguardosa, anche se atipica, una suggestione semiologica che mi spinge a mettere in relazione gravi vicende degli ultimi secoli con le ricorrenze della morte di Dante.
E’ noto che gli ultimi cinque secoli hanno patito, più o meno nei decenni della prima metà, pandemie pestilenziali o fenomeni di diversa natura ma a quelle riconducibili per gravità politica o economica o sociale. Nel 1600 la guerra, detta dei Trent’anni per la sua durata, portò con sé devastazioni, spietate operazioni militari, saccheggi, carestie e quella peste di cui narrò il Manzoni, causa, si dice, di dieci milioni di morti, i più dei quali in Europa centrale. Il 1700, in aggiunta, portò alle guerre di successione (spagnola, polacca, austriaca) e di secessione (Prussia, Gibilterra, Russia) che, insieme alla guerra dei Sette anni, coinvolsero l’intero continente con perdite inevitabili di uomini e mezzi, carestie e tracolli economici che portarono poi alla decadenza monetaria di molti fra gli stati assoluti fino alla rivoluzione francese. Il 1800 vide altrettanto sacrificio nel durissimo scontro fra gli imperi centrorientali e la volontà di indipendenza dei territori minori; il Congresso di Vienna e la Restaurazione furono la causa dell’inasprirsi dei moti rivoluzionari ovunque in Europa (Grecia e Italia p. es.), della rinascita di un movimento bonapartista in Francia e specialmente nell’America centromeridionale ove si formarono repubbliche che autoproclamarono l’indipendenza dalla Spagna: rivolgimento planetario, nuovo ordine mondiale che costò molto in tutti i sensi. Non meno planetario, nella prima metà del Novecento, fu il processo politico-militare che portò alla nascita di repubbliche in tutta l’Europa.
Il primo conflitto mondiale, insieme al tragico scoppio della pandemia detta ‘spagnola’ (causa di cento milioni di morti in tutto il mondo), non fece altro che sancire la fine degli Imperi Centrali, ma registrò quasi ovunque e specie in Germania e in Italia una terribile crisi economica, l’accentuarsi dell’emigrazione e purtroppo la nascita del nazifascismo, causa del secondo conflitto mondiale.
Ora mi chiedo: le morti seminate da questi fenomeni catastrofici, quale relazione (diretta, indiretta, oppositiva, sovrappositiva) possono aver avuto con la ricorrenza del centenario dantesco? Tralasciando, ma non poi tanto, la casualità di una coincidenza temporale, forse non è del tutto improprio un accostamento tra ‘morti’ uguali per segno ma di significato diverso, ove per significato si pensi alle conseguenze socio-economiche e quindi al rapporto tra politica e malattia da un lato e cultura e letteratura dall’altro; rapporto per il quale ho parlato prima di suggestione semiologica ed anzi, voglio dire, macro- semiologica. E mi spiego.
Non v’è dubbio che gli accadimenti sopraddetti presentano aspetti tanto clamorosi quanto negativi se percepiti in se stessi come accadimenti, ma a giudizio lungo lo storico può ricavarne opinioni del tipo: “Se non si fossero verificate tutte queste cose, probabilmente non avremmo avuto queste altre positive” e così via.
E’ il fenomeno della compensazione che permette di allungare l’occhio fino ad abbracciare un quadro più completo del passaggio fra un’epoca ed un’altra. Allora proviamo a spostare la visuale sulla ricorrenza dei centenari danteschi e sui decenni successivi all’anno ’21 (morte di D.). Cosa accade p. es. nel XVII secolo? Non molto in verità per lo studio di D. prima di tale ricorrenza, giacché il peso degli studi postbembiani proprio al Bembo sono comunque debitori fra influenze aristoteliche e inserimenti platonici che cristallizzano la tendenza a privilegiare posizioni piuttosto critiche sui contenuti dottrinari e scientifici della Commedia rispetto alle considerazioni di ordine linguistico e retorico, giusta la sudditanza alle osservazioni del Tasso (si vedano in controluce Castelvetro, Borghini ed altri). I decenni successivi (età del barocco) ritenuti, non del tutto a ragione, poveri di aperture a nuovi interessi danteschi, in realtà maturano equilibrata attenzione alle problematiche filologiche dei testi danteschi senza ignorare il peso dei valori etici insiti nel poema, ma soprattutto battono un nuovo accento sul concetto di ‘piacevolezza’, pur non delineando ancora più espliciti apprezzamenti estetici.
Il secolo si arricchisce tanto di minuti postillatori, diligenti e precisi, quanto di avveduti interpreti (il Buonmattei), ma non manifesta ancora una critica omogenea guidata da criteri unitari. Tuttavia si intravede uno sforzo tendente a far uscire D. dal cono d’ombra riservatogli dalla cultura rinascimentale, succube dell’egemonia petrarchesca, verso una parziale riqualificazione della sua poliedrica personalità. In sostanza gli studi secenteschi su D. guidano la moderata ma positiva ripresa culturale pur fra le drammatiche conseguenze della guerra dei Trent’anni: l’interesse per D. assume un significato che tende ad andare oltre le mere esercitazioni scolastiche, come alla ricerca di un centro letterario propulsore nel nome dell’Alighieri.
Il Settecento, secolo di numerose Poetiche (Crescimbeni, Gravina, Gimma), come di guerre sovvertitrici, si apre all’insegna di una stagnazione degli studi su D., causata dal prevalere degli orientamenti etico-pedagogici dominanti nel campo dell’educazione scolastica ad opera dei gesuiti, in base ai quali si standardizza un’idea di D. come monolite della morale e della scienza conservatrice, con superficiali rimandi alla pregnanza linguistica della Commedia, quasi che l’interpretazione del Campanella, ampiamente suffragata da passione filosofica e competenza letteraria, non abbia avuto sufficiente risonanza. Muratori, Tiraboschi e Salvini, quando tentano di spostare l’attenzione sulla qualità stilistica del poema, ricorrono al concetto di ‘dolce’ in opposizione all’ ‘utile’, dunque si impaludano nel solito stagno del ‘buon gusto’ che caratterizza la povertà concettuale del mondo arcadico.
La ricorrenza dantesca all’inizio del terzo decennio sembra però opporsi a questa debolezza di impostazione col riconoscere che il mondo teologico di D. è parte integrante della filosofia naturale e dunque base per una comprensione più omogenea del suo mondo poetico; ma il vero balzo letterario del secolo è da attribuire alla luce del Vico e alla sua potente configurazione storica di un concetto di poesia che si affranca da tergiversazioni scolastiche e approda a proposte di unità tra fantasia e robustezza linguistica, che avviano alla nascita decisiva del concetto di ispirazione poetica non disgiunta da omogeneità strutturale, a cui meglio e consapevolmente si legherà la critica dell’Ottocento. Il passo in avanti si profila dunque come decisamente positivo.
L’eredità del Parini e dell’Alfieri e l’interesse foscoliano per la Commedia rappresentano la spinta decisiva che l’Ottocento riceve verso una più puntuale delineazione della figura dantesca quale promotrice ideale di cultura, lingua e poesia per il territorio italico, che si dispone per tal via a sorreggere il progetto di indipendenza e unità nazionale. E’ l’avvio, dopo il 1821 e sub specie politica, di un dibattito intellettuale volto a proporre un nuovo standard identitario di giudizi e apprezzamenti dell’opera dantesca (da Mazzini a Gioberti e al Balbo). Ciò non significa che la critica trovi altrettanto stimolo a riconsiderare l’opportunità di nuovi parametri che rinfreschino il complesso degli interventi: prevale l’ottica dell’esemplarità di D., della sua opera e della sua vita, della sua morale e della sua scienza. Dal Troya al Balbo al De Sanctis e poi al Carducci si pone via via l’accento sulla statura morale dell’esule, sulla riscoperta della cultura e della filosofia del Medioevo, ma pure sui modi espressivi del suo fare poetico, il tutto anche sull’onda di interessi e di stima di studiosi europei come Goethe, Sismondi, Ginguené. Non v’è dubbio che in tale ‘romantico’ terreno sia nata non solo una vera critica dantesca, ma pure la coscienza di una storia letteraria nazionale (si ricordi De Sanctis): segnali positivi dunque che, smorzati gli empiti patriottici, dirotteranno il dibattito critico verso il metodo storico-positivistico (D’Ancona, D’Ovidio), quindi verso aspetti simbolico-allegorici della cultura poetica di D. (Pascoli) e poi verso le novità crociane, coeve ma più costruttive degli apporti filologici dello Zingarelli e del Barbi, alla cui direzione si deve la Nuova Edizione Commentata delle opere di D. (1921 e sgg.).
Segnali però più indicativi si offrono infatti in occasione del sesto centenario dantesco (1921), che si apre con i decisivi contributi del Croce (La poesia di Dante) il quale sposta del tutto l’asse della critica in favore dei veri valori della poesia, quelli estetici, promuovendo il superamento delle visioni settoriali fra loro non comunicanti e privilegiando una lettura tendente al giudizio onnicomprensivo delle componenti di un’opera letteraria, che si fonda sulla ricerca della cifra poetica la quale racchiuda in sé l’intelligenza complessiva dell’opera di un autore: D. rappresenta il test che sfida le capacità del critico, dal quale si attende che risolva il problema dell’unità di un’opera come la Commedia e la riconsiderazione di questa alla luce di tutta la sua opera. Un gran passo avanti, anzi enorme, proficuo e illuminante, che ha giovato e tuttora giova ai lettori ma soprattutto a D. stesso, per aver promosso una competizione sempre più raffinata fra crociani e anticrociani che durerà anche oltre la seconda guerra mondiale, e offerto terreno agli apporti sia della critica linguistico-stilistica (Vossler-Spitzer, Flora-Malagoli, Fubini-Bonora ecc.), sia allegorico-figurale (Auerbach-Singleton), sia sociologico-marxista (Gramsci-Batkin-Kutuzov).
A questo punto dubito che possa restare semplice suggestione semiologica pensare che la ripresa dello studio di D., subito dopo i drammatici rivolgimenti su menzionati, ha costituito occasione e motivo per una crescita della progressiva, seppure non senza ombre e parziali contraddizioni, coesione culturale del nostro paese e per l’individuazione di un baricentro storico e intellettuale: la relazione tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ sta nel fatto che il ‘dopo’ è sostitutivo, cioè tende ad oscurare il ‘prima’ con la forza che un grande slancio culturale sa inopinatamente dare ai tempi che ne hanno gran bisogno. “Dalla disgrazia alla grazia”, verrebbe da dire, quand’anche si pensi che il magistero critico del Croce non ha soltanto rivestito nel Novecento il punto di svolta, con gli approfondimenti che ha promosso nello studio e nella nobilitazione degli elementi estetici dell’opera di D. al di là di ogni altra conferma del suo ruolo di grande interprete (‘portatore sano’) della civiltà medievale, ma ha contribuito a costituire, con la sua posizione di intellettuale liberale, il riconosciuto ruolo di ‘resistente’ e oppositore silenzioso dell’ideologia nazifascista che sconvolse l’Europa fino al secondo conflitto mondiale, autentica e purtroppo non metaforica ‘pestilenza’.
Ora, se anche dovesse esaurirsi nei prossimi tempi la pandemia del coronavirus, come mi auguro con fervore, mi domando, anche per distrarmi un po’ dagli effetti del ‘distanziamento sociale’, come sarà la celebrazione del settimo centenario dantesco e quali esiti potrà produrre, dal momento che quelli della mia generazione non vedranno il prossimo della nascita nel 2065!
Certamente non mancheranno congressi, convegni, incontri di cui già si ha qualche notizia (in proposito so che l’instancabile prof. Paolo De Stefano, direttore della rivista tarantina “L’Arengo”, intende dirigere una raccolta di contributi scientifici per l’edizione di ben due volumi), ma duole che il mio maestro, Aldo Vallone, nostro conterraneo e ultimo autore novecentesco di un monumentale Dante (ed. Vallardi, 1980) non sarà lì a registrare le novità che lo avrebbero impegnato a proseguire nel suo eccezionale lavoro di storico della critica dantesca con un altro dei suoi impagabili volumi vallardiani. Sono certo che, potendo, si sarebbe riagganciato a quanto già scritto per l’ultimo tratto del Novecento sulla ‘moda’ insidiosa dei vari metodi nati dallo strutturalismo linguistico (da Jacobson e Valesio a Malkiel e Raimondi), da quello semantico (Pagliaro e Raimondi) all’altro psicanalitico (Bachelard, Guidubaldi) e dilagati in altri puntigliosi rivoli, gonfi di neosimbolismo, di neoallegorismo, di neofilologismo (Fergusson, Barberi Squarotti, Guglielminetti, Sanguineti), a cui si devono pure le devianze dalla linea del ‘figurale’ singletoniano (ricco di suggerimenti esegetici), in ispecie il numerologismo (Hardt, Sarolli) come smania di ricerca e scavo nell’alveo della ‘scritturalità’, presa a modello esclusivo della ricchezza simbologica della Commedia, ma ben lontana dalla poetica del simbolo tracciata quasi un secolo prima (Rossetti, Pascoli).
Ecco, mi attendo che dalla prossima ricorrenza del centenario emergano stimoli critici tendenti alla ripresa dei filoni fondamentali del Novecento e capaci di dare impulso ad un’attenzione, magari pure eterodossa, all’opera di D., che aiuti a ricomporre l’immenso mosaico della sua poesia sotto il segno dell’unità desumibile dall’intreccio originale di lingua, stile e storia.
Soltanto così l’impegno culturale dei prossimi decenni gioverà a fare, dell’appuntamento con l’ennesimo memoriale della morte del poeta, un’occasione che faccia anche questa volta dire che nel suo nome la Storia prossima (italiana) del ventunesimo secolo ha saputo reagire alla Cronaca della disfatta economico-pandemica del primo ventennio, ripartendo e consolidando un altro scatto in avanti della coscienza culturale del nostro paese (e non per mera suggestione semiologica!).