A lungo osteggiata persino dalle “autorità” locali, per compiaciuta ignoranza, per calcolo, per timore di veder sorgere una sorta di “contropotere” accademico, la presenza universitaria a Taranto, con corsi decentrati da Bari, visse stentatamente, proprio mentre veniva alimentata la tesi delle “nuove” Facoltà e dei “nuovi” Corsi di laurea. Che non si capiva bene a che cosa sarebbero serviti e che tipo di titolo, come spendibile, avrebbero rilasciato. Mentre la fame dei diplomati tarantini era sempre indirizzata, almeno nei grandi numeri, verso le Facoltà tradizionali, il cui titolo si sa a che professione abilita: Medicina, la gettonatissima Giurisprudenza (considerata più “facile” anche perché di minor durata), Ingegneria, Economia e commercio, Scienze, Lettere e Filosofia. Pochi sostenevamo – politicamente, giornalisticamente, tramite l’associazionismo – il decollo di una vera Università, con vere Facoltà. In attuazione non solo e non tanto del diritto allo studio (peraltro garantito dalla Costituzione…), ma anche e soprattutto in attuazione dell’art. 3, come ricordava un avvocato e docente universitario che poi, da presidente della Provincia, avrebbe dedicato (monomaniacalmente, sostenevano i suoi avversari: in realtà gli facevano un complimento che nella loro rozzezza non comprendevano) al radicamento dell’Università in Taranto, nella prospettiva dell’Università degli Studi di Taranto, l’impegno prioritario del suo mandato quinquennale, Domenico Rana.
Quando gli Atenei erano pochi, all’Università andavano in pochi, non essere sede universitaria era un problema relativo; quando all’Università iniziarono ad andarci in moltissimi, e le sedi d’Ateneo spuntarono come funghi anche in centri piccoli o medio-piccoli, magari anche prossimi a città universitarie, essere privi di un insediamento universitario metteva oggettivamente in discussione l’eguaglianza fra cittadini solennemente proclamata nell’art. 3, appunto, della Carta costituzionale: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
È fin troppo ovvio che se io, leccese, barese, foggiano, potentino, reggino, cosentino, beneventano, salernitano, napoletano, campobassano, pescarese, aquilano ecc. ecc. esco da casa al mattino, vado in Università, torno per pranzo a casa, nel pomeriggio torno in Ateneo per lezioni o ne uso la biblioteca o le sale di studio, la sera vado in giro per i locali della mia città, nei cui negozi faccio acquisti, faccio una vita ben diversa (e molto meno costosa, in tutti sensi) dal mio omologo tarantino fuorisede, che deve trovarsi un alloggio e da mangiare, e spende e fa acquisti lontano da casa (trascurando altre non proprio minimali questioni). L’Università torna uno sport per ricchi o per superbravi (ma proprio molto super) che, pur partendo da condizioni economiche modeste, con le sempre più rare ed insufficienti borse di studio riescono a sopravvivere da fuorisede. Violando tutti i presupposti dell’articolo 3 della Costituzione, appunto.
A Taranto sono rimasti attivi sostanzialmente Corsi di Giurisprudenza, Scienze, Ingegneria, Economia e commercio (e Professioni infermieristiche e sanitarie); altri sono stati soppressi (e non per mancanza di studenti).
La mancanza più pesante (insieme con quella di Lettere e Filosofia, magari con Scuola di specializzazione in Archeologia, date le peculiari caratteristiche storiche ed archeologiche tarantine, la presenza in città del prestigioso Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia e l’esperienza ormai sessantennale degli annuali Convegni internazionali di studi sulla Magna Grecia, oltre che del Museo nazionale archeologico…) è indubbiamente quella di Medicina. Alla quale, finalmente, l’Università di Bari, su spinta della sua stessa Scuola di Medicina (sovraccarica di studenti) ha deciso di porre riparo. E per una volta anche la Regione ha dato una mano, con il deliberato acquisto del Palazzo già della Banca d’Italia (istituzione scippata a Taranto, come troppe altre; ma anche questo è un altro discorso), destinato a sede proprio della Scuola di Medicina.
Scatenare polemiche su Medicina a Taranto, che sarebbe un “duplicato” delle Scuole presenti in altri centri universitari, e disquisire sulla sua scarsa “qualità” prima ancora di sapere che dotazioni avrà e chi ci insegnerà è da suicidi e masochisti. Un gran numero di studenti tarantini e jonici si iscrive a Medicina; un numero ancora maggiore lo farebbe se avesse la possibilità di farlo con minori spese da fuorisede. La “qualità” dell’insegnamento crescerà man mano che i corsi partiranno; se non ci saranno corsi, non ci potrà essere qualità. La tradizione non si improvvisa. Lecce, e poi Foggia, sono state considerate a lungo Università di serie B (o meno ancora); adesso vantano eccellenze. Ma se non fossero partite non vanterebbero proprio niente. Stesso discorso per Potenza, Salerno e via seguitando.
Oh, fra parentesi: Università in Taranto non vuol dire soltanto risparmio per le famiglie e più opportunità per gli studenti; non vuol dire soltanto maggior ricchezza per commercianti, esercenti di pubblici esercizi (eccetera eccetera): vuole dire anche posti di lavoro, dai bidelli ai professori, e soprattutto possibilità di ritorno almeno per una parte dei cervelli in fuga che, partiti da Taranto, hanno studiato altrove, altrove si sono perfezionati, altrove magari insegnano in Università e fanno ricerca. Di queste generazioni perdute, della loro intelligenza, delle loro esperienze, delle loro capacità, abbiamo un disperato bisogno.
Già nel presente. Non parliamo poi del futuro, che vedrebbe altrimenti la nostra città e la nostra Provincia spopolarsi e diventare una sorta di cronicario e di vivaio di disoccupati o inoccupati. Priva anche di molti anziani, che andrebbero a ricongiungersi ai propri figli, magari per fare i nonni-sitter, nelle città dove questi figli si son costruiti vita e carriera.