Tenere occupate le persone, farle sentire impegnate in qualche attività per poter prevenire l’insorgere di potenziali tumulti e agitazioni sociali è stato da sempre il problema principale delle classi dominanti. La dinastia Qin in Cina fece costruire una interminabile muraglia per tenere a bada milioni di persone, paventando una possibile invasione da parte dei mongoli. Nell’attuale crisi recessiva post Covid si teme che la presenza di una larga disponibilità di manodopera possa far crescere il rischio di malumori e ribellioni per cui, non potendo costruire muraglie, si cerca di correre ai ripari con sussidi, sgravi e sostegni di sopravvivenza. Si pensa a sistemazioni di ripiego, prestazioni sbrigative.
Si incentiva un lavoro senza valore. Non sorprende se le nuove generazioni non si sentano più in colpa verso una società matrigna che li tiene sospesi in una precarietà permanente, se rifiutano quel senso del dovere legato all’idea nobile e virtuosa del lavoro. Nel modello farraginoso del mercato di lavoro persiste la contraddizione tra la legittima esigenza di sostenere gli investimenti nel campo dell’innovazione e digitalizzazione e l’incapacità di prevedere un efficace assorbimento della forza lavoro posta in esubero dalla sua stessa crescita. Nella realtà dei fatti non c’è nessun progetto realistico di qualificazione del lavoro e nessun obbiettivo di ridimensionamento degli orari. Al contrario permane un’esposizione, soprattutto giovanile, ad una instabilità ed una inconsistenza lavorativa ancora più frustrante, che nell’immediato serve ad arginare l’inquietudine della forza-lavoro, ma non ne riempie di significato l’esistenza, liberandola da fatiche e complicazioni ancora più ardue. Si ripropone, per comodità, l’incentivo di vantaggio verso un lavoro sottopagato, abbozzato, come il dilagante working poor, in cui si raccolgono frammentarie briciole di dignità e di salario, si riempiono cesti di semi che non germoglieranno mai: ci si predispone ad una condizione lavorativa misera, abbruttita, poco dissimile da quella raccontata da Dickens nella Londra della prima rivoluzione industriale.
Nel saggio breve “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, scritto nel periodo convulso tra le due guerre mondiali, in mezzo ad una marea di disoccupati ed un mondo da ricostruire, l’economista Keynes immaginava che nel giro di pochi decenni la società umana, risolti i maggiori problemi di sussistenza, liberata dall’assillo e dalla passione morbosa del dover accumulare denaro come obiettivo principale, dopo aver raggiunto stadi elevati di benessere, si sarebbe trovata nella condizione di dover disporre di molto tempo libero e di dover pensare a come ”maneggiare meglio le arti della vita e fare meno attenzione alle attività che definiamo impegnate”. Tuttavia la natura del lavoro nella società contemporanea è diventata soffocante e oppressiva anche per le imprese che sono costrette, loro malgrado, ad una guerra di competizione esacerbata dentro dinamiche sempre più spietate e ingovernabili, dove il personale target di gratificazione viene sempre rimandato di giorno in giorno, provocando disturbi e angosce durature.
L’imprenditore vicentino ritrovatosi dentro una macchina di terapia intensiva di un ospedale dopo aver rifiutato con una certa baldanza il ricovero e le cure previste per essere risultato positivo al Covid (a cui si augurano le migliori fortune di guarigione) è forse il simbolo inconsapevole dell’orgoglio ferito di uomo di successo, sempre motivato e aggressivo, che non è abituato ad essere sopraffatto e umiliato dagli eventi della vita, ma si esercita a volerla dominare, concentrato e coinvolto emotivamente con le sorti e le finalità dell’azienda, legate indissolubilmente al principale scopo del guadagno e del successo, come fonti imprescindibili del proprio piacere. Sembra prevalere a volte nell’attività imprenditoriale un’assuefazione all’onnipotenza così profonda ed eccessiva, che segna il proprio intimo e porta spesso a forme latenti di depressione e dipendenza patologica di chi trova pace e godimento solo in attività strettamente connesse al suo voler comunque primeggiare, senza pause di refrigerio per la mente e per lo spirito. Una vita all’inseguimento, in cui si pretende di sentirsi ogni momento Dio, non è sostenibile. In questi casi lavorare non “stanca”, ma uccide.
L’uomo moderno, scrive Bertrand Russell “Nell’elogio dell’ozio”, di fronte al mito dell’efficienza ha perso il gusto di godere del tempo libero, mentre la convinzione che le attività auspicabili siano quelle che fruttano quattrini ha messo tutto sottosopra. Vissuto, come Keynes, nel periodo più critico di inizio Novecento egli riteneva che in questo mondo si lavora troppo, e che mali incalcolabili derivano dalla certezza che il lavoro sia cosa sana e virtuosa, “mentre la strada della felicità ed anche della prosperità si trova nella diminuzione del lavoro”. Parole chiare e semplici che invitano oggi a riflettere sulla qualità del lavoro da incentivare.