Leopardi scriveva: “Per il moderno dimentichiamo l’antico e dimenticando l’antico, non siamo nemmeno moderni” saggezza di un giovane genio. A proposito di un argomento caro al grande poeta recanatese, qual era l’origine ed il compito tra gli uomini della “Giustizia”. Lo stesso poeta si rifaceva a Cicerone, che, nel suo “De oratore”, più volte ne ha sottoscritto un parere o, ancor meglio, un giudizio: “Magistra vitae est iustitia”. Ossia la giustizia è maestra di vita, maestra ma non dominatrice della stessa vita. E tuttavia, per essere maestra di vita, Cicerone ammoniva che chi la esercitava fosse “purus atque illibatus” onesto negli atti ed esemplare nelle operazioni valide alla migliore condotta giuridica esistenziale. Ma a determinare il vocabolo iustitia, la virtù era proprio nel significato che quella parola comportava, relativa ad uno “ius” che era già nella divinità di Giove. Comunque la parola aveva anche un significato “astratto” perché doveva svolgersi in due direttive, che al tempo stesso erano unitarie: la “lex” e la “ratio”. Senza la “ratio” cioè la logica, non c’è per Cicerone legge, e senza una legge razionalmente precisa, non c’è giustizia. E Cicerone conclude: “iustitia ex qua unᾱ virtute boni viri appellantur” dunque i “boni viri” erano quei giudici che con onestà, equilibrio e competenza, sapevano di legge e valutavano le leggi a seconda dei casi loro sottoposti. D’altronde la stessa parola “iuris prudentia” voleva indicare la prudenza nell’emettere una sentenza. D’altra parte i giudici al tempo di Roma erano fondamentalmente coloro che nella loro anzianità vestivano di bianco: “Senatores”. Così in età repubblicana soprattutto. È tuttavia la parola “ius” voleva dire anche “diritto”, ma essa era polisenso (anche in “Etica e politica” Benedetto Croce riferirà in tal senso); polisenso perché se c’è un diritto privato, o penale, c’è anche un diritto di navigazione, allo studio, al lavoro, costituzionale.
Quindi la parola indicava una forma di diritto-dovere che ricordava ovviamente lo “ius” latino, ma non era assolutamente una forma “ex catedra” perché, di volta in volta, riguardava la competenza del giudice che più volte era un “pretor civilis atque urbanus”.
Queste brevi note di carattere onomastico, etimologico a noi studenti presso l’Università di Pisa ce le riferì, in una lezione, un giovane professore di filosofia del diritto che si chiamava Norberto Bobbio. Ma al di là del diritto e della giurisprudenza romana, in gran parte poi rientrata come struttura e forma, in quella italiana ed anche europea, la riqualificazione del concetto giuridico che, più volte nel passato, le diverse “Inquisizioni” lo avevano modificato ed alterato nel peggio, la riqualificazione la dobbiamo alla fine del settecento, proprio per quell’opuscolo divenuto poi universale “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, la cui figlia Giulia aveva sposato Alessandro Manzoni, autore a sua volta di quel trattato sulla “colonna infame” che doveva essere l’ultimo capitolo dei Promessi Sposi. Quando Beccaria pose mano al suo trattato correva l’anno 1763 ed a Milano si respirava cultura illuministica, che induceva negli animi una ferma convinzione sul valore della dignità dell’uomo, nelle sue possibilità di riscatto, di elevazione intellettuale e morale. La riforma di Cesare Beccaria era sull’onda dell’atmosfera cultura francese che aveva prodotto fra l’altro l”Esprint des lois” del Montesquieu. L’opera del Beccaria affermava che la normativa della legge non ha soltanto un mero fine cogente; la sua prescrizione è indicativa del “fas” e del “nefas” cioè del bene e del male, sempre in relazione a quell’idea di “Humanitas” che poi la conclusione sempre logica di ogni capitolo del trattato.
Non esiste per Beccaria garantismo che non sia quello di garantire, con la pena del colpevole, l’incolumità sociale del non colpevole. Su questo principio Beccaria non transige, perché ogni forma di ingiustizia che si realizza, non solo è un delitto commesso al non reo, ma anche alla stessa sostanza dello “ius”.
Quanto più le leggi sono difettose, sempre meno rapido è il processo, soprattutto verso gli innocenti cittadini, i quali si sentono non più sicuri e protetti. Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà più giusta e più utile (Cap. XIX). Ancor più severo è Beccaria contro coloro che attentano alla sicurezza dei cittadini, mediante assassinio e furto (Cap. XXVII). Ed è ancora più preciso contro coloro che cercano, ancor peggio se politici, di arricchirsi dell’altrui impoverendo il cittadino onesto e serio (Cap. XXV). Beccaria non avrebbe mai tollerato che “summa iura” per alcuni avrebbe procurato “summa iniuria” per tanti altri. Insomma non avrebbe tollerato mai che nello Stato ci fossero organizzazioni antigiuridiche come oggi le Mafie e le Camorre. Per tal via si sarebbe compromessa la stessa autorità non più del giudice ma del governatore. Infine egli invocò processi vigili, pronti, sicuri; e che se uno Stato avesse smarrito il senso della giustizia per troppo di indugio o per benefici altrui, altra giustizia per Beccaria sarebbe stata quella, purtroppo, di Dante. Dio è il vero e sommo giudice. Ma amaramente concludeva, solo per i cristiani.