Per ricordare la figura di Ettore Toscano, l’attore e poeta tarantino recentemente scomparso, pubblichiamo alcuni estratti dalla prefazione di Pasquale Vadalà alla raccolta antologica ‘Poesie scelte, 1970 -2009’ (Lupo editore), pubblicata nel 2010.
Scrivere di Ettore Toscano è essenzialmente rendere merito ad una penna intinta nella rigorosa integrità, nell’intensa deferenza per i suoi modelli, nell’incoercibile ricerca di verità trasmissibili e coerenti. Unico medium concessogli, la parola (che limite!): reminiscenza sonora di un Dio distante ed insensibile, eppure insostituibile dono, aleph d’umanità e del suo superamento. Si badi bene, una trasumanazione che ci lascia non più che uomini, solo migliori e consapevoli. Uomini con la U maiuscola, ma non maggiormente felici né sereni, «in questo fatiscente sito | tenebroso scantinato | che dalle sue origini è il mondo» […]. Ettore Toscano, […] i pensieri che insomma definiremmo poetica, se è vero che essa consiste nell’insieme strutturato degli intenti espressivi e contenutistici esplicati nelle opere di un artista, sono il distillato di un occhio e di una memoria che senza timore osservano ed esprimono […], raccontando inevitabilmente di come paia oggi il mondo a chi, in Italia, abbia vissuto in prima persona la trasformazione forzosa da paese rurale ed artigianale, sofferto eppur geniale assemblaggio di Bertoldini, Bertoldi e Leonardi, a specchio frenetico di modernità. […] La specificità di Toscano, in questo senso, consiste appunto nell’aver dato voce a chi non vuole, sa o può parlare […]. Il Sud, nello scenario di luce e d’ombra non troppo diversamente dal Bodini più piano […] è l’osservatorio d’eccellenza, nonostante i tanti anni di tournée dell’attore. Perché qui sono le radici, la memoria, i tempi dell’apprendimento, sottile e profondo, che determina la personalità una tantum […] … perché il Meridione d’Italia è obiettivamente – e per tutti – il luogo dell’impatto violento del nuovo sull’antico.
Per gli antropologi del ’900, Alla Banfield, giunto dal futuro a cogitare sui nostri arcaismi, ed alla De Martino. Per i coltissimi letterati europei dei secoli precedenti. Per Carlo Levi e Saverio Nitti, per Rocco Scotellaro e Danilo Dolci. Il Sud visto da Taranto, poi… un giardino nel Mediterraneo, la città dei colossali vasi greci, del bisso e della colomba d’Archita, delle processioni notturne, “Misteri” memori di ben più antichi misteri; del quartiere Tamburi, il nostro Licabetto, come acutamente lo immagina Franco Zoppo […]. Fino agli anni ’60. Poi urbe piagata dall’ignoranza, dal mercimonio di anime e cariche, sepolta sotto i detriti dell’abusivismo, foderati dalla follia annebbiata dei tempi. Una follia che la realtà ha allegorizzato, ben prima dell’arte, in spessi strati di polveri sottili che uccidono i medesimi che se ne alimentano, ciclopica nemesi dantesca sotto il sole […]. Questa stereoscopia infera non poteva non produrre potente sfocatura nell’osservatore, così come disforica reazione nel poeta. Ecco generarsi irrefrenabile un bisogno incessante di senso e verità: all’inizio inconscio, empatico, pertanto tendenzialmente lirico, ma via via più consapevole, lucido, sofferto, dunque drammatico e satirico.
Ed ecco già negli anni ’70 affondare Toscano in una riflessione sulla memoria, quella intima e personale che egli ha di paesi, cose, volti e soprattutto di sensazioni […], pagine interiori di cui è certo d’esser tra i pochi a serbare autentico ricordo e dovere di testimonianza […]. ‘Di qua dai vetri che fremono’ è luogo dello scrivere lirico e composto […], molto apprezzata da Spagnoletti, che non a caso ne lodò «l’inquietante ricchezza di temi». Certo, i padri nobili qui scrivono con lui, appena un po’ troppo vicini… Bodini appunto, ma anche Saba, Luzi (di cui possiede una delle più ampie collezioni private), i tarantini Carrieri e Pierri (marito di Alda Merini, anche se lei parve mai rammentarlo); il siciliano Lucio Piccolo […]; il maestro Orazio Giovangigli, al quale dedica infatti più di una lirica […] e tutti i tanti, tantissimi poeti letti con assoluta passione: essi gli vivono affianco quali amici cari, irraggiungibili testimoni (leggete tra le tante l’acuta ‘Per Giorgio Caproni’ […]) o fantocci polemici […]. Eppure esiste una riconoscibile cifra stilistica del poeta “Toscano” […] contraddistinta da quel versificare ricco di figure retoriche, prosopopee, iperbati, anastrofi, allitterazioni, enjambement. […] Quando occorre che siano raccolti e felicemente indirizzati, producono casi singolari di stringente coesione significante|significato, alfine il vero obiettivo dell’autore, dichiarato e strenuamente perseguito.
Basterà leggere ‘Proposito’, da ‘Brusio di fondo’: Una poesia che sia stretta congiunta al soggetto, ai suoi mobili tratti fedele calco unita, come esatta fa una matita dalla punta ben temperata: […] La sua forma sia aderente al senso insinuato quale grafite nella sua intima cavità […]. La lirica ‘Lo sperimentalista’ – si fa per dire, presentandosi invece come satira alla maniera degli antichi, Orazio ma in primis Ipponatte, «terrore dei malvagi», che qualcosa doveva pur condividere col nostro, vista la propensione caratteriale al genere – ribadisce a contrario il concetto, consentendo un ardito accostamento con storiche figure di primo piano, se non negli esiti almeno negli intendimenti. L’‘utile da dire’ poggia sulla medesima sensibilità che al Parini fece scrivere «Va per negletta via | Ognor l’util cercando | La calda fantasìa | Che sol felice è quando | L’utile unir può al vanto | Di lusinghevol canto» o al Manzoni «né proferir mai verbo, | che plauda al vizio, | o la virtù derida» […].
Tagliando corto, per Ettore Toscano un solo momento di verità, di resistenza al dubbio, di autentica aderenza tra personalità – vita – stile – senso – sovrasenso […], vale a giustificare le mille ore di lavoro, gli errori, le disarmonie, gli inciampi […]. Questo del rapporto con la leopardiana «natura matrigna» o, per usare versi di Toscano, con «l’incarnata sofferenza» […], è uno dei topoi più frequenti […], segnando di sé tutta l’opera con la sua cieca volizione, ora visione panica ora delicata amante, lì maestra di vita qui incurante sconosciuta […]. Una frequenza elevata, tanto riconoscibile che Mario Luzi poté definirla in epistola «il suo discorso interno, cucito con punti fitti e discreti, con molta sapienza d’uomo e d’artista» […]. Ma lo sguardo è ormai altrove. In parte dove sempre è stato. Cioè rivolto ad Anna, compagna paziente e positiva di vita, insostituibile viatico alla quotidianità, e soprattutto alle gioie (ed alle ansie) della famiglia, […] a volte davvero commuovente, così da far scrivere a Barberi Squarotti di un «poeta fondamentalmente d’amore, limpido, appassionato». Voglio rilevare come non solo “amore” sia Anna, qui: diviene infatti simbolo d’uno stato d’armonia e di totale adesione al sé […], immanente soluzione […] al dissidio uomo/natura, tanto più ammirata quanto meno Toscano se ne sente egli stesso capace, tutto perso vedendosi nei suoi sterili rovelli. In parte oggi rivolto ad una dimensione molto meno lirica che in passato. “Filosofica” e disincantata, invece, orientata ad un orgoglioso e batailliano «Non serviam». Il senso profondo del tempo la fa da padrone. Clessidra, potente metafora del trapassare, dell’oltre a cui giungiamo come per osculo, offre compiuto posto ad una serena visione ultramondana («Del minuscolo foro | che i due conici vasi congiunge e separa | […] pari è lo spazio e una | la misura che s’alterna | nella perenne clessidra» […].
Negli inediti colpisce la forza d’invettiva: a tratti strabordante […] lascia intravedere un aggiustamento della “mira letteraria”, immediatamente rifratta dallo stile, eroso nella struttura tradizionale sinora adottata. […]. I versi suonano alfine come condanne senza appello: «Un bidone di candida calce | fatta colare sulle scure | incuranti coscienze | degli amministratori locali | e uno strato di biacca | sulle loro ambigue sembianze». Oppure come visioni d’erebo tragicamente vicine: «Simili a lemuri o lombrichi | fra decrepiti palazzi | della fatiscente città vecchia, | giovani disagiati | indotti alla tossicodipendenza» […]. Toscano sillogizza così: se un poeta è tale per sensibilità e verità, queste doti non possono esercitarsi esclusivamente in alcune direzioni (guarda caso innocue) e mai in altre. Non è lecito distogliere lo sguardo […] mentre disastrata l’Italia intorno muore, […] al di là dell’estetica letteraria che potrebbe oggettivamente patirne. Toscano ci richiama tenacemente alla responsabilità ed al coraggio: «il tanto che manca – | l’indolenza l’ha evitato, | l’insensatezza rifuggito – | cercalo in te» e non altrove. Questa gnomica coerenza nel nostro «Secol mercatore» è cosa rara e preziosa: non posso che invitare questo «orticello | posto presso il mare» a seguitare nell’opera sua ancora a lungo, umile seminatore di versi che forse «pochi sanno», ma non per questo in breve appassiranno.