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La prescrizione, un principio fondamentale di civiltà giuridica

I simboli della Giustizia

L’8 Ottobre 2013, nel suo messaggio alle Camere, il Presidente Napolitano si espresse in questo modo sulla condizione delle carceri: «Un l’Italia viene, soprattutto, a porsi in una condizione che ho già definito umiliante sul piano internazionale per le tantissime violazioni di quel divieto di trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti che la Convenzione europea colloca accanto allo stesso diritto alla vita. E tale violazione dei diritti umani va ad aggiungersi, nella sua estrema gravità, a quelle, anch’esse numerose, concernenti la durata non ragionevole dei processi». In uno stato di diritto il potere dello stato di inquisire e processare un cittadino deve essere limitato nel tempo.

Lo stato ha il dovere di arrivare con sentenza definitiva all’accertamento dei fatti in tempi ragionevoli. L’imputato ha il diritto di ricevere un giudizio in un tempo ragionevole. Il principio della ragionevole durata dei processi è sancito all’art 111 della Carta Costituzionale. Lo stesso principio è sancito all’Art 6 comma 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale. Cosa si intende per ragionevole durata del processo? «Si considera rispettato il termine ragionevole (…) se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. (…) si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni» (Cassazione civile, Sezione VI Civile, Sottosezione 2, sentenza 03/09/2015 n° 18839. Legge n. 89 del 24 marzo 2001, denominata comunemente legge “Pinto”).

Il nostro paese è stato più volte condannato in sede di diritto internazionale sia per l’irragionevole durata dei processi che per i mancati risarcimenti dovuti a questo. Secondo il rapporto biennale della Commissione europea per l’efficacia della giustizia (CEPEJ) pubblicato nel 2020, la giustizia civile del nostro paese è tra le più lente in Europa. Nonostante i miglioramenti intervenuti nel biennio 2017-2018, l’Italia resta ultima per i tempi medi relativi al terzo grado di giudizio, e penultima per primo e secondo grado. Le imprese spendono 3 miliardi ogni anno per contenziosi lavorativi. La lentezza della giustizia scoraggia gli investimenti, come dimostra uno studio Cer-Eures, secondo cui se i tempi della nostra giustizia fossero pari a quelli tedeschi, si registrerebbe un aumento aggiuntivo di quasi 2,5 punti del Pil e di 1.000 euro di reddito procapite, ma anche la riduzione del tasso di disoccupazione di mezzo punto, per un recupero di circa 130 mila occupati. Il rapporto CEPEJ evidenzia invece un peggioramento per quel che riguarda la durata media dei procedimenti penali di primo grado, che passa infatti dai 310 giorni del 2016 ai 361 del 2018. 851 giorni per una sentenza d’appello e 156 giorni per Cassazione. Se prendiamo a riferimento i dati del rapporto, la durata media per il terzo grado di giudizio è pari alla metà in Francia e Spagna, un terzo in Germania. Solo la Grecia ha una durata più elevata dell’Italia per un giudizio di primo grado.

Solo Malta per il secondo grado. Nessun paese in Europa è più lento del nostro per la durata media del processo in terzo grado di giudizio. Questi dati evidenziano come la lentezza della giustizia sia il principale problema strutturale del paese. I fondi del Recovery Plan sono vincolati all’approvazione di riforme, e nel nostro caso, il Rapporto della Commissione Europea sullo Stato di Diritto dell’Unione evidenzia la necessità improcrastinabile di intervenire sui tempi della giustizia. Durata dei processi e termini di prescrizione sono due facce della stessa medaglia. La riforma Bonafede, conosciuta come spazzacorrotti, aveva fatto sì che i termini di prescrizione dal 1 Gennaio 2020, si fermassero dopo il primo grado, sia in caso di assoluzione che di condanna. I dati del Ministero dimostrano tuttavia come nel 60% dei casi la prescrizione intervenga prima dell’udienza preliminare, nel 15% prima della sentenza di primo grado. Questo significa che la riforma Bonafede non ha alcun effetto sul 75% delle prescrizioni. Secondo i dati forniti dal ministero di Giustizia i procedimenti penali prescritti nel 2018 in secondo e terzo grado sono stati 29,862. Nel complesso le prescrizioni sono state 117.367, un processo su quattro.

Tra l’esigenza di ripristinare la “certezza del diritto”, e la demagogia del partito di turno che fa suo il vessillo della “lotta per la certezza della pena”, resta intrappolato il funzionamento della macchina della giustizia del paese, con tutte le conseguenze nefaste che questo comporta. Oggetto del dibattito politico è da giorni la “riforma” Cartabia. Con la “riforma” Cartabia, basata sull’impianto della precedente riforma Bonafede, si introduce semplicemente il principio della “prescrizione del processo” in sostituzione del principio della “prescrizione del reato”, si stabilisce ovvero un termine temporale entro il quale il processo deve arrivare a sentenza definitiva. Due anni per il processo d’Appello e un anno per quello in Cassazione. Il minimo sindacale per il ripristino dello stato di diritto. Tale termini non sarebbero comunque validi per alcune ipotesi di reato, quali mafia, terrorismo, e, in base alle richieste del Movimento Cinque Stelle. Se da un lato vi è l’esigenza di ripristinare il principio della ragionevole durata del processo, dall’altro vi è però quella di individuare le cause che determinano l’allungamento dei tempi del processo e la relativa prescrizione. Mentre il dibattito politico si concentra sulla prescrizione, tema di grande interesse elettorale, il 70% dei furti e l’80% degli omicidi resta impunito. La prescrizione è tuttavia solo il sintomo di una giustizia che non funziona.

Mirko VENTURINI